L’altro giorno, 14 maggio, dopo che ho letto i resoconti parlamentari del dibattito sulla proposta di premierato del governo Meloni-Casellati, in particolare gli interventi di Liliana Segre e di Elena Cattaneo, sono andato a rileggermi il testo su cui ho fatto l’esame di “Istituzioni di diritto pubblico”, laddove si faceva riferimento alla discussione nella Prima sezione della Seconda Sottocommissione della Commissione dei 75 della Assemblea Costituente sulla eventualità di una repubblica presidenziale o su un governo presidenziale: entrambe vennero bocciate, non si voleva più, sulla base della storia prefascista e della dittatura fascista, il “Capo del governo”. l’uomo solo al comando (adesso diremmo, la donna sola al comando) o una “dittatura della maggioranza”.
Volevo però capire l’idea che avevano i Costituenti del loro lavoro. Piero Calamandrei ricorda che Togliatti gli disse che i preparatori della Costituzione dovevano fare «come quei che va di notte, /che porta il lume dietro e sé non giova, /ma dopo sé fa le persone dotte». Una citazione di Dante, versi 67-69 del Canto XXII del Purgatorio.
Ma interessante è la chiusura dell’intervento di Piero Calamandrei nella discussione generale di presentazione della bozza di Costituzione (4 marzo 1947):
“Questo che noi facciamo è il lavoro che un popolo di lavoratori ci ha affidato, e bisogna sforzarci di portarlo a compimento meglio che si può, lealmente e seriamente. Non bisogna dire, come da qualcuno ho udito anche qui, che questa è una Costituzione provvisoria che durerà poco e che, di qui a poco, si dovrà rifare. No: questa dev’essere una Costituzione destinata a durare.
Dobbiamo volere che duri; metterci dentro la nostra volontà. In questa democrazia nascente dobbiamo crederci, e salvarla così con la nostra fede e non disperderla in schermaglie di politica spicciola e avvelenata.
Se noi siamo qui a parlare liberamente in quest’aula, in cui una sciagurata voce irrise e vilipese venticinque anni fa le istituzioni parlamentari, è perché per venti anni qualcuno ha continuato a credere nella democrazia, e questa sua religione ha testimoniato con la prigionia, l’esilio e la morte.
Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea Costituente: se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini.
Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno, come sempre avviene che con l’andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda, che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani, fino al sacrificio di Anna-Maria Enriquez e di Tina Lorenzoni, nelle quali l’eroismo è giunto alla soglia della santità.
Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità.
Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile; quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore.
Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti. Non dobbiamo tradirli.
(Vivissimi, generali applausi — Moltissime congratulazioni).”