Agosto
La storia di un rapporto epistolare tra un’americana e un libraio londinese, costruito sulla passione per i libri
Al numero 84 di Charing Cross Road a Londra la libreria Marks&C. diretta da Mr. Frank Doel (Anthony Hopkins) è la meta preferita di coloro che amano le pubblicazioni più ricercate e più difficili da reperire a prezzo economico. Siamo nel 1949 e nell’ Inghilterra sofferente per la tragedia della guerra vi è ancora il tesseramento. Dall’altra parte dell’Oceano a New York, Helene Hanff (Anne Bancroft), una scrittrice che cerca senza riuscirci di affermarsi come autrice di teatro, è appassionata di libri di antiquariato, in particolare della letteratura classica inglese, molto difficili da acquistare presso i librai americani perché troppo cari. La donna dopo varie ricerche trova finalmente questa libreria londinese che le dà la possibilità di soddisfare il suo desiderio di approfondimento culturale ed intreccia un rapporto anche psicologico con Frank Doel. Tra i due inizia una fitta corrispondenza epistolare, prima incentrata sulle opere da ricercare e poi sempre più intrisa di amicizia e di affetto. Un rapporto che durerà fino al 1969, quando l’edificio, che ospita il negozio, verrà abbattuto con la ristrutturazione di tutto il vecchio quartiere e al suo posto sorgerà un negozio di compact disc.
Helene e Frank non avranno mai la possibilità di conoscersi dal vivo, anche perché lui morirà interrompendo così questo prezioso legame culturale.
Tratto dal libro omonimo di Helene Hanff, in Italia pubblicato da Roselina Archinto, 84, Charing Cross Road è diretto da David Jones, regista teatrale di fama e autore di Tradimenti, una pellicola del 1982 da una piéce di Harold Pinter da lui stesso sceneggiata. L’idea di portare il testo sullo schermo è di Mel Brooks che l’ha prodotto per festeggiare i ventun anni di matrimonio con sua moglie, la bravissima Anne Bancroft, impegnata in un duetto di bravura con l’inglesissimo Anthony Hopkins, I due sono protagonisti di questa sorta di originale storia d’ amore tra bibliofili; un dialogo tra due mondi, due città, due culture vissuto dai tempi delle restrizioni alimentari del dopoguerra fino alle minigonne, ai Beatles e alle lotte studentesche degli anni Sessanta, quando la vita politica entra nella vita quotidiana della gente. Toccante l’ultima sequenza della pellicola nella quale Helene, dopo aver guadagnato una discreta somma ricevuta per il copione di uno sceneggiato televisivo di successo, finalmente si reca a Londra per visitare il negozio del suo amico, ormai deserto e abbandonato. Lei ripercorrerà con la mente i meravigliosi anni dell’amicizia con Frank vissuta attraverso le loro novanta lettere.
“È stato lo sceneggiatore Hugh Whitemore- ha raccontato lo stesso regista in una affollata conferenza stampa di presentazione del film a Milano nel novembre 1987, che io avevo chiamato senza sapere, che aveva già lavorato alla versione televisiva del libro, nel ’73, a introdurre questo elemento mancante nell’opera della Hanff. Abbiamo rispettato rigorosamente il testo delle lettere, ma senza restare troppo legati al libro. Anne Bancroft prima di iniziare voleva conoscere la Hanff, ma io mi sono opposto, bisognava che il suo personaggio se lo costruisse da sola”. Jones ha anche il merito di aver realizzato un’opera cinematografica moderna con gli attori che guardano in macchina per dialogare direttamente con il pubblico. Una tecnica per la verità già sperimentata da altri registi, come afferma il critico Tullio Kezich “La soluzione delle lettere che, da voce fuoricampo, finiscono recitate dai mittenti in primo piano e con l’occhio fisso all’obiettivo, non è nuova, l’ha usata Bergman, la usò molti anni fa Ermanno Olmi per I fidanzati, ma è tipica di un cinema che vuol chiamare in causa lo spettatore in prima persona”.
David Jones è un regista che privilegia la parola rispetto alla pura immagine frutto della sua affermazione artistica nel teatro classico e in televisione (la BBC è stata da sempre la palestra di grandi cineasti). La pellicola appartiene ad una stagione gloriosa del cinema britannico che negli anni Ottanta saprà guadagnarsi il titolo di migliore produzione cinematografica al mondo anche per merito di interpreti del calibro di Anthony Hopkins, straordinario nel rendere la figura di Mr. Doel, impassibile nello sguardo e nei gesti. Una interpretazione unica senza scene madri o scontri dialettici con altri personaggi, ma fatta di piccole sfumature come osserva un altro critico, Leonardo Autera: “Basta osservare quanto traspare dal suo volto, fra trepida speranza e delusione, al cospetto della bella turista americana che, entrata nella libreria, egli si illude possa essere la cara e sospirata Helene”.
L’attore gallese ottantatreenne ha ancora una volta stupito pubblico e critica con il film The Father-Nulla è come sembra, con cui si è aggiudicato nel 2021 l’Oscar come miglior protagonista.
Pierfranco Bianchetti
Giugno
Le drammatiche terribili difficoltà di integrazione tra due culture
Guardando questo film è difficile oggi non pensare alla tragica vicenda della giovane pakistana Saman Abbas scomparsa in provincia di Reggio Emilia, probabilmente vittima della sua famiglia tradizionalista, poi fuggita all’estero e ricercata attivamente da diverse polizie europee.
La sedicenne Nisha, appartenente ad una famiglia pakistana ben inserita nella società norvegese, ma molto tradizionalista, vive due vite parallele. Da una parte si comporta come un’adolescente felice di frequentare i suoi coetanei con grande spensieratezza, mentre nell’ambiente familiare è costretta a comportarsi secondo i canoni della ragazza ubbidiente alla tradizione .
Una sera incautamente Nisha fa entrare di nascosto in camera sua il fidanzatino norvegese, ma è scoperta da suo padre. L’uomo furibondo e aggressivo, colpisce il ragazzo sentendosi ferito nel suo onore.
Intervengono allora i servizi sociali, ma la situazione non migliora. La famiglia, terrorizzata dai giudizi della comunità pakistana, decide di far rientrare in patria la ragazza, che verrà affidata agli zii per essere educata secondo le consuetudini e i principi della tradizione. Nisha, accompagnata dal padre, ma senza più cellulare né computer, arriva in Pakistan e per lei, abituata agli usi occidentali, la vita diventa insopportabile, soprattutto per gli atteggiamenti autoritari della rigida zia che la costringe alla sottomissione.
L’unico momento di serenità arriva quando la ragazza intreccia una relazione sentimentale segreta con il cugino. Una notte i due escono alla ricerca di un po’ di privacy, ma vengono sorpresi nel buio della notte da tre poliziotti feroci e crudeli che picchiano i due ragazzi, li costringono a denudarsi per poi fotografarli come arma di ricatto per spillare soldi ai loro familiari.
Come sempre gli zii imputano alla nipote la responsabilità dell’accaduto e fanno ritornare il padre della ragazza dalla Norvegia, che in un impeto di follia vorrebbe costringere la giovane a gettarsi da un’altura come punizione per il suo comportamento “scellerato”. Rientrati in Norvegia padre e figlia, insieme a tutta la famiglia, sono convocati dai servizi sociali allarmati da una richiesta di aiuto via mail che la giovane disperata era riuscita ad inviare.
Nisha però cerca di minimizzare l’accaduto e a quel punto tutto sembra rientrare nella normalità. I suoi genitori ormai convinti di averla domata, organizzano un matrimonio con il figlio medico dei vicini di casa, che vive in Canada.
Sconvolta Nisha capisce allora di avere una sola strada da percorrere….
Il film, diretto con mano sicura dalla quarantacinquenne Iram Haq ispirandosi ad una sua storia personale (a 14 anni è stata portata in Pakistan dai suoi genitori terrorizzati dalle sue amicizie con i coetanei norvegesi), è costruito in tre momenti diversi ed è un efficace atto d’ accusa sulle difficoltà di integrazione della comunità pakistana in un paese occidentale ed evoluto come la Norvegia.
Impressionante è constatare il ruolo delle donne (la madre e la zia) accanite custodi dei valori ultra conservatori, quasi più degli uomini. La pellicola disponibile su Rayplay, che ha la capacità di coinvolgere lo spettatore al pari di un avvincente thriller, è interpretata con straordinaria bravura dall’attrice esordiente Maria Mozhdah: i cui occhi ci comunicano tutto lo smarrimento e l’infelicità di una ragazza dilaniata da due culture, da due mondi inconciliabili.
Pierfranco Bianchetti
Maggio
Un storia della finanza internazionale
Ellen Martin (Meryl Streep) in un tragico incidente avvenuto durante la crociera in battello sul lake George (realmente accaduto), perde il marito. Dopo il funerale la vedova inizia le pratiche per ottenere il risarcimento dalla polizia assicurativa sugli incidenti e scopre amaramente di avere in mano solo carta straccia. Il suo capitale è sparito in una complessa operazione finanziaria che vede coinvolte una serie di società fittizie, di assicurazioni fasulle, di industrie inesistenti sparse in tutto il mondo. Ellen però non si scoraggia e insegue i suoi soldi. La sua determinazione è ammirevole e alla fine la donna risale alla fonte disonesta di questi traffici illeciti, lo studio legale di nome Mossack Fónseca, con sede a Panama, proprietario di centinaia di società offshore. Inseguendo i soldi dallo Stato di New York verso Cina, Messico, Malta, Islanda, Africa e Caraibi, viene alla luce una colossale truffa che si chiama elusione (e non evasione fiscale), tollerata dalle leggi americane.
Lo scandalo rivelato al pubblico nel 2016 da un consorzio investigativo guidato dal premio Pulitzer Jake Bernstein e poi riportato dal suo libro sui Panama Papers viene trasformato in sceneggiatura da Scott Z. Burns e dal regista Steven Soderbergh. Presentato all’ultima Mostra di Venezia, il film (titolo originale The laundromat) ha suscitato molta curiosità. La vicenda ruota attorno ai dossier confidenziali creati dalla Mossack Fónseca nei quali si scopriranno i nomi degli azionisti, spesso capi di stato e di governi, ma anche funzionari e le loro famiglie che potevano tenere nascosti i loro beni, senza un controllo delle autorità preposte (la lista degli uomini politici è impressionante).
Soderbergh quasi si diverte a svelarci questa pagina della finanza internazionale attraverso i racconti dei due protagonisti della truffa e inseguendo la tenace inchiesta condotta a titolo personale della vedova raggirata. Lo spettatore è guidato a scoprire questo malaffare finanziario dai due elegantissimi e bizzarri soci d’affari, Jürgen Mossack (Gary Oldman) e Ramon Fónseca (Antonio Banderas), che ci spiegano allegramente come sia stato possibile arricchirsi senza che nessun ente federale sia riuscito ad intercettare questa operazione di corruzione internazionale di proporzioni gigantesche.
Soderbergh, confezionando una commedia satirica in chiave nera che diverte e spaventa nello stesso tempo, ci mette in guardia sui meccanismi criminali capaci di colpire dovunque e ovunque, anche chi solo possiede una normale polizza. Strepitosa come sempre è Meryl Streep, che ha dedicato questo film alla memoria della giornalista maltese Daphne Caruana Galizia uccisa due anni fa, una delle croniste che lavorò alla diffusione dei documenti dello studio Mossack & Fonseca.
Panama Papers contribuisce come altri film e documentari (Wall Street: Money never sleeps; Tra le nuvole; Capitalism: A love story; Il teorema della crisi) a denunciare l’immoralità dell’ambiente finanziario americano.
Nell’ultima sequenza del film Meryl Streep, dopo essersi levata gli abiti della donna che ha scoperchiato il malaffare, dice al pubblico: “In questo sistema, nel nostro sistema, gli schiavi sono ignari, sia della loro condizione, sia dei loro padroni, che vivono in un mondo a parte e dove le catene sono nascoste in mezzo a misure di inaccessibile legalese. E questo è il risultato della imponente corruzione della professione legale. I controlli e i contrappesi della democrazia hanno fallito. L’evasione fiscale non può in alcun modo finire laddove pubblici funzionari chiedono soldi alle stesse élite che hanno i più forti incentivi ad evadere le tasse.”
Poi l’attrice alzando il braccio destro e brandendo una spazzola come fosse la fiaccola della Statua della Libertà di New York, conclude: “La riforma del sistema di finanziamenti della campagna elettorale dell’America non può attendere”.
Pierfranco Bianchetti
Aprile
La storia della leggendaria conduttrice di talk-show Katherine Newberry, pioniera di un nuovo modo di fare televisione
Dopo circa trent’anni di onorata carriera Katherine Newberry (Emma Thompson), una pioneristica e celebre conduttrice del talk-show, rischia di perdere il suo ambito posto alla guida di un noto programma in onda a tarda notte. Per salvare la sua “creatura” dovrà rivoluzionarla completamente e renderla più moderna e attuale. La conduttrice, vincitrice di un Late Show, ambito premio giornalistico (e titolo originale della pellicola), è nella televisione americana l’unica donna ad avere un suo programma di lunga durata, grazie al controllo ferreo con cui tiene al guinzaglio il suo personale gruppo di scrittori e sceneggiatori formato da soli uomini. La giornalista, accusata di essere una “donna che odia le donne”, è famosa per la sua freddezza umana, tanto che durante una riunione dei suoi collaboratori chiede all’improvviso notizie su di uno sceneggiatore: “Dov’è John?” ma le rispondono che “John è morto nel 2021” e lei che non se ne era neanche accorta!
A causa del crollo degli ascolti e dell’indice di gradimento ogni giorno più bassi, Katherine mette in atto una serie di azioni anche al fine di ristabilire la parità del genere tra i suoi collaboratori assumendo Molly Patel (Mindy Kaling), esperta dell’efficienza e funzionalità di un’industria chimica. La ragazza di origini indiane, proveniente dalla periferia della Pennsylvania, grande sognatrice cresciuta con il mito irraggiungibile di Katherine, intelligente e grintosa, diventa così la prima e unica donna all’interno di uno staff di scrittori maschi rivelandosi, nonostante nessuna esperienza nella sceneggiatura per la televisione, la persona giusta per trasformare il talk-show in un nuovo programma più autentico e personale.
Nel frattempo voci sempre più insistenti danno la Newberry rimpiazzata a breve da una conduttrice più bella, giovane e cool. Allora lei passa al contrattacco e ordina ai suoi collaboratori di trasformarla in una conduttrice affascinante, moderna e al passo coi tempi. Molly, diventata ormai la sua fedele aiutante, si conferma la persona giusta per la non facile impresa di salvare il posto a Katherine.
Diretto dalla canadese Nisha Fanatra di origine indiana, il film è un interessante spaccato del mondo giornalistico statunitense, un mondo crudele dove non si fa sconti a nessuno e dove anche personaggi famosi dopo una esperienza decennale di successo, possono in poco tempo cadere come birilli sconfitti dal cambiamento dei gusti del pubblico televisivo bizzarro e affamato di novità. Grandi le due interpreti femminili, la veterana Emma Thompson (Quel che resta del giorno, Ragione e sentimento, Casa Howard) e Mindy Kaling, sceneggiatrice, produttrice e attrice, la prima donna nera a scrivere la premiata serie tv The Office e conduttrice di un suo programma per il piccolo schermo.
Il film ci fa riflettere sulla storia della televisione americana e Hollywood, una storia conflittuale a cominciare dal 1945, quando nella sola New York vengono chiuse 51 sale cinematografiche, 96 a Chicago e 134 nella California meridionale. I cambiamenti dello stile di vita degli americani in quegli anni con la diffusione della televisione (ma anche la migrazione del ceto medio nelle aree suburbane prive di cinema) mettono in crisi l’industria cinematografica insieme alla nascita delle teleplay, cioè i teledrammi da noi chiamati originali televisivi, adorati dai nuovi telespettatori. Tra i produttori, primo fra tutti Jack Warner (il tycoon dà ordine che il maledetto elettrodomestico non debba mai apparire in un solo fotogramma dei suoi film), si diffonde una feroce avversione nei confronti della tv. In una sequenza del film Happy Anniversary (Divieto d’amore, 1959), il protagonista, un infuriato David Niven, sfonda a calci un apparecchio televisivo. Hollywood poi corre ai ripari e rilancia con il Cinemascope e poi con il Cinerama per riconquistare il suo pubblico. Con il passare degli anni la televisione diventa un soggetto che Hollywood intende ben sfruttare. Nel 1976 è il grande sceneggiatore Paddy Chayefsky a firmare uno dei copioni più interessanti e profetici sul mondo dei mass media: Network (Quinto potere), film diretto da Sidney Lumet con Peter Finch, William Holden, Faye Dunaway. È un pesante atto di accusa sui grandi guasti provocati da una certa tv basata sul sensazionalismo e sulla conquista dell’audience a tutti i costi. Del ’98 è il mitico The Truman Show per la regia di Peter Weir, con Jim Carrey, una satira feroce sui reality show, mentre Robert Redford nel 1994 con Quiz Show ci racconta del celebre scandalo scoperto nel 1958 nel corso di un programma simile al nostro Lascia o raddoppia. Ancora del 2010 è Il buongiorno del mattino di Roger Michell, protagonista una giovane produttrice tv chiamata a risollevare le sorti un notiziario i cui ascolti sono in picchiata. Ormai da diversi anni la nascita delle piattaforme tv, il nuovo modo di consumare film, serie tv e documentari, ha messo d’accordo produttori cinematografici e televisivi. Nessuno prenderà più a calci il piccolo schermo!
Pierfranco Bianchetti
Marzo
Un gruppo di giornalisti investigativi rivela il più grande scandalo di abusi sessuali compiuti da preti pedofili in America
Estate 2001. Il neodirettore Marty Baron (Liev Schreber) del “Boston Globe”, uno dei più importanti quotidiani del Massachusetts, proveniente dal “Miami Herald”, decide di affidare al team Spotlight, un gruppo di giornalisti investigativi attivi dal 1970, di indagare su di un fatto di cronaca, l’abuso sessuale perpetrato da un prete locale su decine di giovani parrocchiani nel corso degli ultimi trent’anni.
I cronisti Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams), Michael Rezendes (Mark Ruffalo) e lo specialista in ricerche informatiche Matt Carroll (Brian d’Arcy James), guidati dal caporedattore Walter “Robby” Robinson (Michael Keaton), iniziano le indagini intervistando alcune delle vittime e il loro avvocato Mitchell Garabiedian (Tony Tucci), tentando a fatica di mettere le mani su atti giudiziari secretati. A tutti è però chiara la dimensione della scandalo che coinvolge le alte sfere della Chiesa Cattolica tra cui l’Arcivescovo della cattolicissima Boston, Cardinale Bernard Francis Law (Len Cariou), responsabili dell’insabbiamento delle prove necessarie ad arrivare alla verità aiutati anche dalla complicità delle autorità locali.
Nel 2002 dopo aver superato molte difficoltà (altri giornalisti e avvocati per anni sono stati intimoriti e costretti al silenzio), il Globe pubblica il dossier sulla scottante inchiesta che fa molto scalpore anche per un elevato numero di vittime di pedofili con la tonaca, pronte a raccontare pubblicamente la sofferenza causata dagli abusi subiti e tollerati per anni. L’inchiesta, che farà guadagnare il Premio Pulitzer di pubblico servizio al quotidiano nel 2003, apre come una bomba atomica la strada a molte altre rivelazioni in diverse città americane e poi in molti paesi nel mondo.
Questi terribili episodi di violenza fisica e psicologica compiuti su ragazzi e ragazze, metteranno difficoltà il Vaticano, che reagirà con ambiguità: il cardinale Law verrà rimosso dall’incarico ma poi trasferito a Roma e promosso arciprete della Basilica di Santa Maria Maggiore, una delle più importanti del mondo. Molto tempo dopo, toccherà all’attuale Papa Francesco cercare di dimissionare i prelati più compromessi nella scottante vicenda.
Diretto nel 2015 da Tom McCarthy, Il caso Spotlight, premiato come miglior film e miglior sceneggiatura originale con l’Oscar nel 2016, appartiene al filone cinematografico del giornalismo d’inchiesta della Hollywood più progressista con titoli celebri quali Barriera invisibile, 1947, L’ultima minaccia, 1952, Tutti gli uomini del Presidente, 1972, Diritto di Cronaca, 1981, Cronisti d’assalto, 1994 e Truth- Il prezzo della libertà, 2015.
Interpretato da uno stuolo di attori alto livello, il film dalla prima sequenza all’ultima emoziona lo spettatore rendendolo partecipe della battaglia civile e democratica portata avanti da quel gruppo straordinari reporter. Drammatica è la verità che emerge nell’ultima inquadratura nella quale scopriamo le dimensioni degli abusi compiute sulle povere vittime: 1.476 nella sola Boston; in tutti gli Stati Uniti 6.427 sacerdoti sono stati accusati di abuso sessuale su 17.259 vittime. Grazie ai 600 articoli pubblicati dalla squadra investigativa del quotidiano americano, sono venuti alla luce i comportamenti devianti di 70 sacerdoti nella sola diocesi di Boston coperti dalla Chiesa Cattolica.
A noi tutti piacerebbe nella nostra vita vedere i più deboli vincere sui più forti, ma sappiamo che così non è. Però dopo aver visto la pellicola di Tom McCarthy (in Italia ha riscosso pareri contrastanti, il plauso di Famiglia Cristiana e le feroci critiche di Foglio), possiamo qualche volta illuderci della vittoria del bene sul male, della giustizia sull’ingiustizia.
Pierfranco Bianchetti
Febbraio
Ascesa e caduta di un candidato alla Presidenza degli Stati Uniti d’America
Nella primavera del 1987, nelle file del partito Democratico, emerge la figura del senatore del Colorado Gary Hart (Hugh Jackson), brillante politico carismatico, idealista e credibile candidato alla Casa Bianca. I suoi avversari nel partito sono via via sconfitti e la sua ascesa alla candidatura per la Presidenza si fa sempre più certa.
Con il suo programma innovativo e con le sue idee progressiste, Hart insegue il progetto di grandezza e di leadership mondiale degli Stati Uniti d’America. Nel segno del cambiamento, della tecnologia, della cura dell’ambiente, non trascurando lo spirito pionieristico che tanto piace al popolo americano, il senatore riscuote un fascino enorme nell’elettorato democratico e non solo.
Il destino però gli è sfavorevole. Nel corso di un week end su di una barca chiamata Monkey Business, conosce Donna Rice (Sara Paxron), una modella di Miami con la quale inizia una relazione extraconiugale. In seguito a una telefonata fatta da un’amica di Donna a Tom Fiedler (Steve Zissis), un reporter frustrato del Miami Herald, la storiella sentimentale viene alla luce. Tom e il suo collega Pete Murphy (Bill Burr) si appostano nei pressi della casa di Washington del senatore che viene fotografato con la ragazza.
Hart, all’inizio sdegnato e offeso dalle domande che gli pongono sulla sua vita privata, reagisce con decisione (“non sono affari vostri”). Poi tenta di stare fuori dalla mischia creatasi con l’entrata in campo di altri media, sperando che tutta la faccenda di smonti.
Purtroppo però la sua posizione diventa ogni giorno più indifendibile, nonostante il suo staff cerchi di aiutarlo ad uscire dall’assedio (la sua casa nel Colorado è presa d’assalto dalle televisioni e dalle radio). Alla fine l’infedeltà coniugale di Gary Hart prevarrà su tutto e il senatore dovrà lasciare il posto di candidato alla presidenza al debolissimo Michael Dukakis, che infatti perderà le elezioni contro George H.W. Bush.
Il film, diretto da Jason Reitman nel 2018 e tratto dal libro All the Truth Is Out, scritto da Matt Bai (ex capo corrispondente politico del New York Times), è un lucido spaccato di una stagione non felice della storia americana, la fine degli anni Ottanta quando la politica diventa ostaggio del gossip, dei tabloid alla ricerca del sensazionalismo e dello scandalo. Una cosa impensabile ai tempi di John Kennedy, noto per la sua instancabile attività sessuale, che all’epoca nessun giornalista avrebbe mai osato raccontare.
Più fortunato sarà cinque anni dopo il presidente Bill Clinton coinvolto nello scandalo Lewinsky da cui uscirà illeso dopo la richiesta di impeachment per l’accusa di falsa testimonianza in seguito alla sua breve relazione extraconiugale con una giovane stagista della Casa Bianca.
La vicenda dolorosa della fine della carriera politica del brillante senatore, ritorna alla luce prima nel libro e poi nella pellicola, che punta il dito contro il giornalismo statunitense e la sua conversione al gossip. Per la cronaca Gary Hart, docente universitario in Colorado, ancora oggi sposato con la stessa donna, ha appoggiato poi la candidatura di Barack Obama nel 2008 e nel 2014 è stato nominato nuovo inviato speciale degli Stati Uniti per l’Irlanda del Nord.
Interpretato da un eccezionale Hugh Jackson (truccato con un vistoso parrucchino), dalle intense Sara Paxron e Vera Farmiga (nel ruolo della moglie di Hart) e da un ottimo stuolo di comprimari, il film ci mostra anche la faticosa vita di un candidato alla presidenza tra incontri, comizi, partecipazioni a feste e sagre paesane e le riunioni del suo staff sempre alla ricerca di soluzioni e strategie alternative per superare ogni giorno problemi di visibilità e di credibilità del loro aspirante alla Casa Bianca.
Il regista Jason Reitman, già autore dei pregevoli Juno e Tra le nuvole, aggiunge un nuovo capitolo al filone cinematografico dedicato al potere della stampa negli Usa che annovera titoli importanti quali Good Night and Good Luck, 2005, Lo sciacallo- Nightcrawler, 2014, Il caso Spotlight, 2015, The Post, 2017, non dimenticando i mitici Tutti gli uomini del presidente, 1976, Quinto potere, 1976, L’ultima minaccia,1952, L’asso nella manica, 1951 e Quarto potere, 1941.
Pierfranco Bianchetti
Gennaio
La strada verso il potere di un personaggio politico vissuto sempre lontano dai riflettori
Nel 1963 Dick Cheney (Christian Bale), un operaio elettrico dello stato rurale del Wyoming, che, a causa dell’alcolismo, ha dovuto lasciare l’università di Yale, dopo un incidente in auto dovuto ancora una volta alla bottiglia, promette a sua moglie Lynn (Amy Adams) di dare una svolta alla sua vita. Nel 1968 entra come stagista alla Casa Bianca guidata dal presidente Nixon e diventa il braccio destro del consulente economico Donald Rumsfeld (Steve Carell). Lavorando in silenzio, ma con tenacia, Dick impara nelle stanze del potere che cosa è la politica. Con le dimissioni di Nixon travolto dalla scandalo Watergate, le carriere di Rumsfeld e di Cheney decollano velocemente. Quando il nuovo presidente Gerald Ford entra in carica, il primo è nominato segretario della difesa e il secondo capo di gabinetto della Casa Bianca.
Nel 1976 dopo il cambio di amministrazione (Jimmy Carter ha vinto le elezioni), Dick, aiutato dalla fedele Lynn cui è molto legato e nonostante gravi problemi cardiaci, riesce ad ottenere un seggio alla Camera dei rappresentanti. Uomo determinato e calcolatore, lavora nello staff del presidente George H. Bush, ma poi deve lasciare la politica dopo la vittoria del democratico Bill Clinton.
Il destino però ha in serbo per lui un futuro radioso. Il nuovo “commander-in-chief” George W. Bush nel 2001 lo nomina a sorpresa suo vice. Dopo gli attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, è lui a gestire la difficile situazione in un’America sconvolta e spaventata e a determinare le invasioni statunitensi dell’Afghanistan e Iraq dove moriranno molti civili e saranno anche praticate le torture ai sospettati di terrorismo.
Le sue astute e abili manovre politiche di burattinaio che opera da sempre nell’ombra, modificheranno il panorama politico americano e saranno materia per gli studiosi e per gli storici. Personaggio complesso e contraddittorio, Cheney durante la sua ascesa mette da parte le ambizioni per proteggere sua figlia Mary (Alison Pil), che si è dichiarata gay. Più tardi quando l’altra figlia Liz (Lily Rabe) prende parte alla campagna elettorale, la cerchia familiare si rompe. Con il sostegno dei suoi genitori, Liz si dichiara contraria ai matrimoni gay, mettendosi contro Mary. La carriera di Dick Cheney condizionata anche da quattro infarti e da una difficile operazione al cuore, si chiude con la fine del mandato di Bush junior nel gennaio 2009.
Attratto da questo machiavellico e imprevedibile personaggio e dopo aver letto la magistrale biografia intitolata The Power Broker di Robert Moses scritta da Robert Caro (un’altra visione profonda sull’ascesa al potere di un uomo e il difficile compito di trattenere a sé quel potere), il regista inizia a leggere tutto quello che può sull’argomento prima di scrivere la sceneggiatura, frutto di un’intesa attività di ricerca e di numerose interviste fatte in prima persona; un lavoro imponente su quarant’anni di storia politica americana premiato poi con la nomination all’Oscar nel 2019.
McKay come protagonista ha già scelto Christian Bale che per questa sua strepitosa interpretazione si porterà a casa l’Oscar come migliore attore protagonista, truccato da Kate Biscoe e Patricia DeHaney e acconciato da Greg Cannon, anche loro vincitori dell’Oscar.
Ancora una volta Hollywood ci racconta un’avvincente pagina dell’America contemporanea, quella di un “piccolo” uomo, un vice (in inglese significa anche vizio) che scala tutti i gradini del potere guidato da una volontà di ferro. Una classica e autentica storia americana.
Pierfranco Bianchetti
Dicembre
Il grande sceneggiatore di Hollywood, vittima del maccartismo, che non si è mai piegato
Hollywood anni ’40. Dalton Trumbo (Bryan Cranston), uno degli sceneggiatori più pagati al mondo, stimato e ammirato, scrive copioni per film importanti come Missione segreta, diretto da Mervyn LeRoy, che racconta la prima storica incursione aerea americana su Tokio nel 1944. Da sempre schierato con i sindacati e attivo nelle battaglie per i diritti civili, Dalton iscritto al partito comunista americano, è chiamato insieme ad altri suoi colleghi a testimoniare di fronte al Comitato per le Attività Antiamericane nell’ambito dell’indagine sulle influenze comuniste negli Stati Uniti. Trumbo si rifiuta categoricamente di rispondere alle domande della Commissione e viene condannato e incarcerato in una prigione federale a Hashland, Kentucky. Sua nemica giurata è la potente “pettegola di Hollywood”, la giornalista del gossip del mondo del cinema e anticomunista implacabile Hedda Hopper (Helen Mirren) che conduce la sua personale battaglia contro gli intellettuali di sinistra. Per lo sceneggiatore e per i suoi familiari inizia così un periodo durissimo. Le più importanti produzioni dell’industria cinematografica si rifiutano di farlo lavorare terrorizzate dalla possibilità di essere associate alle sue posizioni politiche. Costretto a vendere la casa ed abbandonato dagli amici e colleghi, Trumbo per mantenere la sua famiglia deve adattarsi a realizzare soggetti per film di terz’ordine sotto falso nome. Nei primi anni ’50 si trasferisce in Messico, dove nel 1951 termina lo script di Vacanze romane, una commedia romantica che sarà poi diretta da William Wyler e interpretata dalla coppia glamour Gregory Peck e Audrey Hepburn. L’attrice per questo ruolo vincerà l’Oscar, come miglior interprete femminile, mentre per la miglior sceneggiatura sarà premiato Ian MacLellah (solo molti anni più tardi sarà riconosciuta la paternità a Trumbo). Nel 1954 rientrato in California, va a vivere in un sobborgo di Los Angeles continuando a lavorare in incognito. Nel 1956 con lo pseudonimo di Robert Rich firma il copione di La più grande corrida per la regia di Irving Rapper, storia di un piccolo vaccaro messicano e del suo amore per un toro di nome Gitano destinato ad essere ucciso nell’arena. Questa vicenda tenera destinata ad un pubblico di bambini ottiene un successo strepitoso negli Usa e in tutta l’America Latina vincendo la preziosa statuetta per la migliore sceneggiatura, che solamente nel 1975 Trumbo potrà ritirare. La sua carriera nell’anonimato dura fino al 1960, quando per merito del divo Kirk Douglas e del regista Otto Preminger finalmente il suo nome sarà inserito nel film credit di Spartacus diretto dal giovane Stanley Kubrick, il “primo film rivoluzionario della storia” apprezzato dalla critica e premiato al botteghino. Il maccartismo con le sue liste nere è ormai finito. L’ultima parola- la vera storia di Dalton Trumbo di Jay Roach ci racconta con sentimento ed emozione sincera un capitolo della storia americana che va dagli anni ’40 agli anni ’60, spesso dimenticata. Tratta dalla sceneggiatura di John McNamara e basata sul libro Dalton Trumbo di Bruce Cook, la pellicola interpretata da Bryan Cranston, Diane Lane, Helen Mirren, John Goodman, è un doveroso omaggio alla figura di questo intellettuale brillante, ambizioso, polemico, onesto e coraggioso che ha saputo lottare sempre per le sue idee, per i suoi valori e i suoi principi. In una sequenza Trumbo spiega con grande semplicità a sua figlia, una bambina, perché bisogna credere in un mondo senza ingiustizie sociali. Memorabili sono alcuni personaggi simboli di un’epoca, come il falco e fanatico anticomunista John Wayne (David James Elliott); il pavido attore Edward G. Robinson (Michael Stuhlbarg), che tradisce i colleghi, ma poi vive nel rimorso; i coraggiosi Otto Preminger (Chrstian Berkel) e Kirk Douglas ((Dean O’0Gorman) e il produttore Frank King (John Goodman) di film dell’orrore, di gangster, di fantascienza e western, un uomo totalmente apolitico, che però non esita ad aiutare tutti gli scrittori finiti nelle liste di proscrizione.
Pierfranco Bianchetti
Novembre
Una pagina buia della storia americana
Chicago 28 agosto 1968. Durante la Convention del Partito Democratico che deve decidere il candidato da contrapporre al repubblicano Richard Nixon per la carica di Presidente, scoppiano gravi incidenti tra le forze dell’ordine e i manifestanti, oltre quindicimila, che si battono contro la guerra del Vietnam e contro la presidenza di Lyndon Johnson. L’intera amministrazione della città, guidata dal sindaco Richard Daley, rifiuta ogni autorizzazione ai dimostranti per creare un clima di illegalità, con la polizia e la guardia nazionale sul piede di guerra pronte ad entrare in azione. La situazione presto degenera tra gas lacrimogeni, bastonate, distruzione di vetrine, barricate, saccheggi e devastazione di automezzi. Vengono arrestati e accusati di cospirazione e incitamento alla rivolta sette esponenti del dissenso: Abbie Hoffman, Tom Hayden, Rennie Davis, David Hellinger, John Froines, Lee Winer, Tom Haiden e Jerry Rubin, il leader riconosciuto dei Black Panther, che era solo rimasto in città per poche ore. Prima dell’inizio del dibattimento il procuratore generale convoca i suoi legali migliori che formeranno la pubblica accusa, per procedere ad una sorta di vendetta nei confronti degli arrestati dando così un segnale alla maggioranza silenziosa vincitrice delle elezioni, per rassicurarla dell’inizio di una nuova stagione politica conservatrice nel paese. Il 26 settembre 1969 inizia il processo, che durerà 151 giorni, presieduto da Julius Hoffman, un giudice fazioso, arrogante e ultraconservatore, deciso con ogni mezzo a far condannare gli imputati giudicati da una giuria formata da soli bianchi, non certo imparziale. Il dibattimento è contrassegnato da uno scontro all’arma bianca tra gli agguerriti avvocati del Partito Democratico e la pubblica accusa che vuole dimostrare la pericolosità sociale degli uomini alla sbarra. Due Americhe si scontrano inesorabilmente, i liberal impegnati nel difendere i diritti civili e politici di tutti contro il mondo della conservazione impegnato a riportare l’ordine nel paese. Grazie ad un grande numero di infiltrati della polizia e del FBI tra i dimostranti (testimoni preziosi per gli accusatori), il processo procede seguitissimo dai mass media in un clima incandescente, con il leader Bobby Seale legato e imbavagliato per ordine del giudice. Una decisione che scatena la reazione perfino della pubblica accusa inorridita da questa palese illegalità insopportabile per un paese democratico. Nonostante l’intervento a sorpresa dell’ex procuratore generale Ramsey Clark della vecchia amministrazione, che metterà al corrente l’opinione pubblica di dossier falsificati dal FBI diretto dal famigerato Hoover, costruiti per screditare gli esponenti liberal, i sette sono condannati e solo nel 1972 il verdetto di colpevolezza verrà ribaltato dalla Corte d’Appello. Diretto con mano sicura da Aaron Sorkin, Il processo ai Chicago 7, avvalendosi anche di filmati d’epoca e con una sceneggiatura robusta e convincente, ci racconta una pagina nera della storia democratica americana avvalendosi di uno stuolo di attori di prim’ordine: il bravissimo Sacha Baron Cohen che è Abbie Hoffman, attivista della sinistra radicale (Youth International Party); il suo socio Jerry Rubin nel ruolo di Jeremy Strong, mentre John Carroll è il pacifista e obbiettore di coscienza David Dellinger e Bobby Seale, leader delle Black Panther, è Yahya Abdul-Mateen II. Non meno bravi sono gli attori che vestono i panni degli avvocati, come Mark Rylance, il pacato ma determinato William Kunstler e Ben Shenkman nelle vesti di Leonard Weinglass, il legale dallo stile ironico ed elegante. E ancora tra gli altri protagonisti della vicenda vi sono Joseph Gordon Levitt impegnato nel ruolo del Procuratore Richard Schultz, la pubblica accusa, ligio al suo dovere, ma ideologicamente confuso e il grande Frank Langella che è l’implacabile giudice Julius Hoffman (qualche volte lo spettatore vorrebbe “strozzarlo” per la sua irritante parzialità). Il film, dal ritmo serrato capace di non annoiare il pubblico per ben 129 minuti, ci ricorda inevitabilmente l’America di oggi più che mai divisa e attraversata da forti tensioni sociali.
Pierfranco Bianchetti
Ottobre
L’affare Dreyfuss, uno dei più clamorosi “errori” giudiziari della storia francese
5 gennaio 1895. Pochi mesi prima della nascita del cinematografo dei fratelli Lumière, nel cortile dell’École Militaire di Parigi, Georges Picquart (Jean Dujardin), ufficiale dell’esercito francese, presenzia alla pubblica condanna e all’umiliante degradazione inflitta ad Alfred Dreyfuss (Louis Garrel), un capitano ebreo, accusato di essere stato un informatore dei nemici tedeschi. Al disonore segue l’esilio e la sentenza che condanna il traditore ad essere confinato sull’isola del Diavolo, nella Guyana francese, un atollo sperduto nel nulla, dove il Capitano per combattere la solitudine e l’angoscia, scrive lunghe lettere alla sua adorata moglie lontana. Nel frattempo Picquart guadagna la promozione a capo della Sezione di statistica, la stessa unità del controspionaggio militare che aveva montato le accuse contro Dreyfuss. L’ufficiale intuisce subito che la fuga di notizie riservate continua ancora. Un dubbio allora lo assale. E se il collega condannato fosse del tutto innocente? E se fosse stato vittima di una congiura ordita proprio da alcuni militari del controspionaggio? Questi interrogativi affollano la mente di Picquart deciso a scoprire la verità anche a costo di diventare un bersaglio dei suoi stessi superiori. La sua missione di scagionare un innocente sarà un vero pellegrinaggio tra generali, ministri, giudici, tutti sordi di fronte alle nuove prove e in qualche caso anche minacciosi nei suoi confronti. La Francia in quel periodo sembra un paese alle soglie della guerra civile. Militari, nobili, potenti uomini d’affari, sono gli uni contro gli altri. Questa drammatica situazione però non impedisce all’ufficiale e alla “spia” di fare fronte comune per lottare uniti nella difesa del proprio onore. L’affare Dreyfuss è uno dei più clamorosi “errori” giudiziari della storia francese che all’epoca sconvolse la nazione tra il 1894 e il 1906. Il presunto traditore affermò con forza la sua innocenza combattendo contro tutto il Paese. Il suo caso avrà una incredibile risonanza mediatica dividendo l’opinione pubblica, tra chi sosteneva l’innocenza e chi lo riteneva invece colpevole. Tra gli innocentisti si schierò Émile Zola, che scrisse un articolo famoso nel quale puntava il dito contro il clima di antisemitismo imperante nella Terza Repubblica francese. Tale intervento venne intitolato proprio J’Accuse, Lettera al presidente della Repubblica, uscito sul quotidiano L’aurore il 13 gennaio 1898, tre anni dopo la condanna. Un secondo processo condannerà ancora l’ufficiale a una pena più lieve e finalmente nel 1906 Dreyfuss verrà graziato e reintegrato nell’esercito, mentre Picquart diventerà per tre anni ministro della guerra nel governo di Georges Clemanceau. Roman Polanski, il grande regista polacco, uno dei maestri del cinema contemporaneo, ha scritto la sceneggiatura insieme a Robert Harris, autore del romanzo da cui è tratto il film, riuscendo a rappresentare sul grande schermo un’epoca, quella della fine del secolo XIX e l’inizio del XX, con grande efficacia scegliendo due ottimi interpreti, Jean Dujardin, perfetto per la parte del colonello Picquart (gli assomiglia fisicamente e ha la stessa età del vero personaggio) e l’ottimo Louis Garrel in quella del povero Dreyfuss. Nella pellicola sostenuta da un ritmo che non lascia respiro, si possono vedere anche dei manifesti con su scritto Morte agli ebrei, simboli di un clima di antisemitismo che oggi purtroppo non è sparito, ma ha solo cambiato volto. ”Molte delle dinamiche che sono dietro il sistema persecutorio mostrato nel film– racconta Polanski, ebreo braccato durante la seconda guerra mondiale e artista perseguitato dal regime polacco durante gli anni dello stalinismo-mi sono familiari e mi hanno chiaramente ispirato”.
Pierfranco Bianchetti
Settembre
Un graffiante ritratto del sistema politico americano
L’avvocato Bill McKay (Robert Redford), attivista dei diritti civili, accetta di candidarsi al seggio di senatore democratico della California in competizione con il repubblicano in carica Crocker Jarmon (Don Porter). Per affrontare questa sfida, si affida a Marvin Lucas (Peter Boyle), uno specialista delle elezioni politiche. McKay, un uomo giovane, di bell’aspetto e figlio di un ex governatore democratico dello Stato californiano, ottiene formalmente l’assicurazione di poter battersi per la conquista del seggio facendo prevalere i suoi valori e i suoi progetti per un’America migliore. La campagna elettorale inizia con strette di mano, comizi, incontri quasi sempre inutili con l’elettorato e interviste televisive, che però annacquano lentamente le sue idee e i suoi obiettivi. Il tutto si trasforma ben presto in una campagna elettorale generica e vuota di contenuti. Anche i discorsi dell’aspirante senatore retorici e necessari solo a catturare una parte sempre più ampia di voti, gli impediscono di fatto di schierarsi nettamente su temi delicati. Il suo manager però insiste nella strategia incentrata sul recupero di consensi rispetto al suo avversario politico. Così grazie anche all’aiuto del padre e al sostegno non richiesto dei sindacati, McKay vince le elezioni. Frastornato e confuso dopo la vittoria viene condotto in una stanza d’albergo in attesa di presentarsi alla stampa come trionfatore della competizione. Qui l’uomo chiede al suo stretto collaboratore: “E adesso che facciamo?”. L’ultima sequenza ci mostra il neosenatore nella stanza vuota, che simboleggia il suo animo ormai privo di ideali e di speranze. Ottimo esempio di cinema sociologico, il film diretto da Michael Ritchie, analizza i meccanismi del consenso politico statunitense con intelligenza e attenzione. Robert Redford da tempo voleva portare sullo schermo questo progetto coraggioso e poco commerciale, incontrando il rifiuto e l’opposizione di molti produttori di Hollywood. Finalmente Richard Zanuck, passato alla Warner, accetta di realizzare la pellicola certamente rischiosa per il botteghino e poco appetibile per il grande pubblico, nonostante la presenza del divo americano. Le riprese iniziano nel novembre 1971 in tempo per poter distribuire il film nelle sale entro le elezioni presidenziali del giugno 1972. L’attore, da sempre sostenitore delle cause liberal e ambientali, porta sullo schermo la figura di questo politico non convenzionale, che in qualche misura potrebbe ricordare la figura, anche nel fisico, di Robert Kennedy. Nel suo bel libro Robert Redford edito da Gremese, Giuliana Muscio ricostruisce la storia de Il candidato sceneggiato da Jeremy Larner. “Redford – ricorda l’autore del copione – mi chiese di scrivere una sceneggiatura originale su di un politico “venduto”. Voleva mostrare il prezzo che si paga per vincere. Io dissi che il problema di solito non è tanto di svendersi quanto la pressione cui è sottoposta una figura pubblica – una forza che è più potente della stessa idea che quella persona può avere di se stessa e del proprio progetto”. The Candidate girato con taglio documentaristico, usa immagini reali di Hubert Humphrey, Howard K. Smith e Natalie Wood nella parte di se stessa, per dare autenticità alla storia. “Prima della Convenzione Democratica del 1972 – ci ricorda ancora Giuliana Muscio – Redford, parodiando la campagna elettorale, fece un finto viaggio elettorale attraverso la Florida. Quando arrivava in una città si ammassava una grande folla, spesso più numerosa di quella che i candidati alle presidenziali avevano attirato nelle primarie, quella primavera; poi camminava a gran passi verso il retro del treno, scomposto ed enfatico, dichiarando: ‘Io apprezzo che siate venuti. Vi chiedo solo di pensare a questo, amici: non ho assolutamente nulla da dire’ e il treno si allontanava”. Il film, premio Oscar per la miglior sceneggiatura, ancora oggi rimane una intelligente descrizione del sistema politico statunitense.
Pierfranco Bianchetti
Agosto
Un viaggio nell’America dei pregiudizi e delle discriminazioni razziali
Il buttafuori del Cocabana, uno dei più famosi locali notturni di new York, Tony Vallelonga detto Tony Lip (Viggo Mortesen), un italo americano rozzo e diseducato, è assunto come autista dall’ afroamericano Don Shirley (Mahershala Ali), uno dei pianisti jazz più famosi al mondo, per accompagnarlo in una tournèe in giro per gli stati del Sud (è il 1962), dove i diritti civili delle minoranze etniche sono calpestati. Shirley si affida allora al Negro Motorist Green Book, venduto nelle stazioni Esso e spedito tramite abbonamenti, che contiene una mappa di motel ristoranti e pompe di benzina in cui anche gli afroamericani sono ben accolti. Tra i due inizialmente le cose risultano piuttosto difficili e complicate. Tony parla continuamente in auto, fuma, mangia ininterrottamente, fa domande personali, a Don che invece è abituato ad autisti discreti ed educati che non parlano, a meno che non venga loro richiesto. Il viaggio tra gli stati del sud si trasforma in un’esperienza di vita sconvolgente per Tony a contatto con una realtà a lui sconosciuta, quella della discriminazione razziale. I due vengono fermati di notte dagli agenti di uno sceriffo di Contea per non aver rispettato il coprifuoco per la gente di colore e in un’altra occasione Tony salva per un pelo da una brutta fine il suo datore di lavoro aggredito in un bar da alcuni bianchi razzisti e violenti. Anche per Ali questo viaggio sarà l’occasione per rivedere il suo modo di pensare e di giudicare gli altri da intellettuale distacco e aristocratico. In una sequenza vediamo l’auto dei due ferma ai bordi di una strada del sud, mentre Don guarda dal finestrino dei contadini neri che lavorano nei campi sotto il sole cocente e l’umidità, a loro volta sbalorditi da un afroamericano ben vestito con un autista bianco. Il rapporto tra i due uomini con il passare dei giorni si fa sempre più stretto (il musicista aiuterà il suo amico a scrivere lettere romantiche a sua moglie) anche in situazioni sgradevoli con Don acclamato dopo le varie esibizioni pianistiche da un pubblico elegante, colto e raffinato, ma poi costretto a mangiare in cucina con i camerieri negli alberghi dove si esibisce Shirley. Tra Don e Tony al termine del viaggio è ormai nata una profonda amicizia che durerà per oltre 50 anni fino alla scomparsa di entrambi nel 2013 a soli tre mesi di distanza l’uno dall’ altro. Tratto da una storia vera, il film, un grande successo di pubblico in tutto il mondo, è una riflessione sul pregiudizio razziale e sul rispetto delle reciproche differenze. Strepitosi i due interpreti che reggono sulle loro spalle tutta questa sconvolgente vicenda ambientata in un’America da brivido. Viggo Mortesen, attore cresciuto in varie culture, danese, argentina e americana, protagonista di film di grande successo (Il signore degli anelli, A History Violence, A Dangerous Method) ha dovuto ingrassare venti chili per somigliare al vero Tony costruendo il suo personaggio con la visione di ore e ore di video, in cui l’italo-americano Tony raccontava tante cose della sua vita, compreso questo viaggio. Altrettanto bravo è Mahershla Ali, il Dr. Don Shirley, già premiato con l’Oscar come Miglior attore non protagonista per la sua performance nel film Moonlight, che ha accettato la sfida di interpretare un artista enigmatico e complesso. “Quello che mi ha davvero incuriosito di Don Shirley- racconta l’attore- era quanto fosse complicato. C’è così tanto da tirare fuor da lui, le cose contro cui ha lottato, le cose in cui ha esibito un grado di eccellenza”. Il Green Book, pubblicato ininterrottamente dal 1936 al 1966, non è più necessario per i viaggiatori neri dopo l’approvazione da parte del presidente Lyndon B. Johnson del Civil Rights Act del 1964, che ha reso illegali le leggi Jim Crow sulla segregazione razziale in vigore in America dal 1876.
Pierfranco Bianchetti
Luglio
Una storia vera ambientata in un’aula di un tribunale razzista dell’Alabama
Il giovane avvocato Bryan Stevenson (Michael B. Jordan), un neolaureato afroamericano ad Harvard, arrivato in Alabama, offre i suoi servigi a tutti coloro che non possono sostenere le spese legali in tribunale assistito dall’avvocatessa locale Eva Ansley (Brie Larson), Bryan un giorno intuisce il dramma di Walter McMillian (Jamie Foxx), anche lui nero condannato a morte per l’omicidio di Ronda Morrison, una ragazza caucasica di 18 anni avvenuto nel 1987 sulla base di una sola testimonianza da parte di un altro detenuto, Ralph Myers (Tim Blake Nelson), un criminale che potrebbe avere dei motivi per mentire. Bryan dovrà lottare per anni districandosi in un labirinto di difficoltà legali e politiche sullo sfondo di un razzismo feroce sostenuto da un sistema basato sull’ingiustizia e sull’illegalità. La vittoria che otterrà con grande fatica il giovane legale in tribunale, sarà la base per salvare dalla prigione molti detenuti accusati ingiustamente. Tratto dal romanzo best-seller autobiografico di Bryan Stevenson (Fazi Editore), fondatore della Equal Justice Initiative, l’organizzazione no profit impegnata a porre fine alle carcerazioni di massa, alle punizioni eccessive e a sfidare l’ingiustizia razziale ed economica proteggendo così le persone più fragili, il film, una storia potente e coinvolgente, appartiene al classico filone del cinema americano liberal, che a partire dagli anni Sessanta ha contribuito a diffondere e consolidare gli stereotipi razziali proponendo una nuova immagine dei neri. Un cinema che ha visto in Sidney Poitier il suo interprete ideale (La parete di fango, La calda notte dell’ispettore Tibbs, Indovina chi viene a cena?). ”Viviamo in una società in cui prevalgono i toni nazionalistici- afferma il regista Daniel Cretton- e dove i soldi contano più della giustizia”. La storia di McMillian è accaduta negli anni Novanta dopo le grandi lotte della popolazione afroamericana e dimostra quanto il seme razziale e segregazionista è tutt’altro che sconfitto in America, dove ancora soprattutto nelle aule giudiziarie del sud, il colore della pelle e gli abusi della polizia sui più deboli sono ancora tollerati. Il diritto di opporsi con le sue due ore e venti di lunghezza (la sceneggiatura è di Andrew Lanhan) riesce a catturare lo spettatore incredulo di fronte al muro di menzogne anche se il tema di fondo non è l’abolizione della pena di morte, ma una sua applicazione sulle persone innocenti. Jamie Foxx (Ray, Baby Driver- Il genio della truffa) si conferma un attore di razza affiancato dall’ottimo Michael B. Jordan (Black Panther, Creed-Nato per combattere). La pellicola è stata girata quasi interamente nei pressi di Atlanta, in Georgia, con alcune scene anche a Montgomery, in Alabama.
Pierfranco Bianchetti
Giugno
La Germania fa in conti con il proprio passato: Im Labyrinth des Schweigens
Francoforte 1958. Johann Radmann (Alexander Fehling), giovane procuratore della Repubblica Federale Tedesca solitamente incaricato di piccole cause relative a infrazioni del codice della strada, conosce Thomas Gnielka (André Szymanski), un giornalista “d’assalto” in possesso di scottanti documenti sulla figura di un professore di liceo, un ex SS in servizio nel campo di Auschwitz, che secondo la legge in vigore non dovrebbe più ricoprire incarichi nella pubblica amministrazione. Osteggiato dai suoi colleghi, ma non dal procuratore generale Fritz Bauer (Gert Voss), il magistrato inizia ad indagare a tutto campo su molti nazisti che al termine della guerra sono stati reintegrati nella società tedesca senza rispondere del loro passato criminale. Thomas, diventato nel frattempo amico di Johann, conosce Marlene Wondrak (Friederike Becht), una bella e disinibita ragazza che aspira ad aprire una sua sartoria e Simon Kirsch (Johannes Krisch), un artista ebreo sopravvissuto allo sterminio, in lotta con i suoi demoni interiori e in possesso di documenti in grado di smascherare molte ex SS di Auschwitz. Il coraggioso magistrato indaga in ogni direzione per scovare gli criminali rimasti impuniti scontrandosi però con una realtà difficile per via della politica di Adenauer, il cancelliere tedesco al potere che ha imposto al paese in pieno boom economico, la rimozione del passato hitleriano in nome della pacificazione nazionale. Radmann però convince molti ex deportati a testimoniare sulle attività dei loro aguzzini tra i quali il famigerato Josef Mengele, il medico detto “dottor morte” fuggito in America Latina, ma spesso presente sul territorio tedesco sotto falso nome. Questa dura battaglia combattuta da Johann anche in condizioni psicologiche di grande sofferenza (ha scoperto che suo padre era un ufficiale nazista), culminerà nel 1963 nel celebre processo di Francoforte dove saranno condannati ventidue responsabili di crimini nazisti. Il film diretto da Giulio Ricciarelli, nato a Milano nel 1965 ed emigrato in Germania qui al suo debutto dietro la cinepresa e sceneggiato con Elisabeth Bartel sulla base di fatti realmente accaduti, è stato selezionato dalla Germania come migliore film straniero agli Oscar 2016. “Il progetto della pellicola- racconta il regista- nasce da un articolo sul primo processo ai responsabili di Auschwitz portatomi da Elisabeth. Io non conoscevo questa storia che mi ha stupito e affascinato. Insieme abbiamo lavorato per molto tempo in collaborazione con diversi studiosi e abbiamo scoperto come negli anni Cinquanta la giovane Germania stava crescendo economicamente guardando in avanti, ma nel silenzio del suo passato. Nessuno sapeva nulla dell’Olocausto e grazie al procuratore generale Fritz Bauer e ai suoi giovani colleghi, la nazione tedesca ha potuto fare un processo a se stessa, alle sue responsabilità storiche”. Oggi la Germania attraverso il cinema sta dimostrando la volontà di fare in conti con il passato. Il labirinto del silenzio, un dramma giudiziario di solida fattura, dimostra quanto la memoria tragica degli anni del Terzo Reich dopo anni di rimozione, sia un tema ancora vivo nella memoria collettiva.
Pierfranco Bianchetti
Maggio
L’arte anticipa la realtà
Anthony Hubbard (Denzel Washington), esperto di antiterrorismo dell’FBI a New York e la collega Elise Kraft (Annette Bening), agente della CIA, devono gestire una difficile situazione di ordine pubblico dopo che un autobus è esploso a Brooklyn, il primo di una sanguinosa serie di attentati terroristici. Elise è molto ligia nello svolgere il suo compito, ma nasconde un segreto, quello di avere avuto in passato un ruolo ambiguo nell’addestramento e nel finanziamento dei militanti islamisti nel loro paese. I due devono vedersela con il generale William Deveraux (Bruce Willis), capo dell’esercito, un uomo che non maschera l’avidità di potere e il malcelato disprezzo per la democrazia. Il nemico da combattere è un gruppo di islamisti iracheni e la legge marziale messa in atto nella città di New York con l’esercito per le strade potrebbe scongiurare il pericolo di nuove vittime, ma nello stesso tempo una soluzione di tipo autoritario può diventare l’incubo per tutti coloro che amano la democrazia e i suoi principi di libertà. Dopo un altro attentato ad un autobus di linea e a un teatro pieno di persone con molte vittime, Manhattan rischia di trasformarsi in una nuova Beirut. Hubbard e Kraft tenteranno con ogni mezzo di eliminare il pericolo terroristico salvaguardando le istituzioni democratiche. Girato in esterni a Times Square e sulla 42ma strada chiuse di notte per le riprese così come il ponte di Blooklyn per una mattina intera, il film di Edward Zwick, già autore di Il coraggio della verità, una pellicola ancora incentrata sulle questioni etico-militari, affronta un tema difficile e complicato. “È un film sulla nostra società – afferma Denzel Washington- sul limite al quale siamo disposti ad arrivare per proteggere la nostra Costituzione, la Carta dei Diritti Civili, in una guerra contro il terrorismo che potrebbe potenzialmente mettere alla prova le stesse libertà sancite da quei testi”. Nel 1998, l’anno di produzione di Attacco al potere, nessuno avrebbe mai potuto immaginare l’11 settembre 2001 e tutte le sue conseguenze.
Il cinema molte volte ha utilizzato gli attentati terroristici in chiave spettacolare, a cominciare dal grande Hitchcock che nel 1938 con Sabotaggio mette al centro della vicenda una bomba a orologeria affidata ad un ragazzino inconsapevole da un gestore di un cinema per compiere una strage. Nel 1977 è John Frankenheimer a firmare Black Sunday, storia di un gruppo palestinese che prepara un attentato tramite un dirigibile in uno stadio dove si sta svolgendo la finale del Super Bowl. Due anni più tardi esce nelle sale Ogro del nostro Gillo Pontecorvo, la vera vicenda dell’uccisione del primo Ministro spagnolo Carrero Blanco eliminato dall’ETA con una bomba nella sua auto a Madrid. Nel 1994 è Steven Hopkins a dirigere Blown away, il duello tra un terrorista dell’IRA (Tommy Lee Jones) e un poliziotto (Jeff Bridges) a Boston. In Die Hard–Duri a morire di John McTiernan del 1995 un maniaco (Jeremy Irons) dissemina New York di bombe inseguito da un poliziotto (Bruce Willis) e da un negoziante di Harlem (Samuel Jackson). Girato l’anno successivo The Rock di Michael Bay è la storia di un generale Usa (Ed Harris) che minaccia di irrorare San Francisco con il gas nervino, ma dovrà vedersela con un chimico (Nicolas Cage) e con una spia britannica (Sean Connery). Nel 1997 tocca a una pellicola di grande successo, The Peacemaker di Mimi Leder, protagonisti l’ufficiale dell’esercito Usa Thomas Devoe (George Clooney) e Julia Kelly (Nicole Kidman), una esperta di fisica nucleare che devono neutralizzare un ordigno pronto per esplodere nella sede dell’ONU. E ancora nel 2006 in World Trade Center di Oliver Stone, il poliziotto J. J. McLoughlin (Nicholas Cage) entrato nel grattacielo newyorkese dopo l’attentato alle Torri Gemelle per aiutare i feriti, rimane intrappolato tra le macerie, mentre nel 2008 è Anthony Maras a firmare Attacco a Mumbai- Una vera storia di coraggio, la serie di attentati che nel novembre 2008 hanno messo a ferro e fuoco la città dell’India. Di notevole intensità Boston – Caccia all’uomo del 2016 per la regia di Peter Berg, tratto dal romanzo di Casey Sherman e Dave Wedge, racconta la determinazione del sergente di polizia Tommy Saunders (Mark Wahlberg), testimone dell’esplosione di un ordigno durante la maratona di Boston che causerà tre morti e numerosi feriti.
Pierfranco Bianchetti
Aprile
La guerra in Afghanistan e la democrazia americana
Charles Nesbit Wilson (Tom Hanks) è un deputato texano, playboy, che si gode la vita, tra squillo di lusso, salotti bene, vasche da bagno, stanze d’ albergo di super lusso, del buon whisky e anche della cocaina. Anticomunista viscerale, Charles nel 1980 con l’aiuto della sua amante Joanne Herring (Julia Roberts), una fanatica della destra americana e del tosto agente della CIA Gust Avrakotos (Philip Seymour Hoffman), decide di organizzare la resistenza afghana contro gli invasori sovietici. Con incredibile abilità e attraverso una stupefacente alleanza tra il Mossad israeliano, l’Egitto e il Pakistan, Wilson sconvolto dalla visione dei campi profughi afghani, riesce a dotare i mujahidin di cannoni e bazooka in grado di abbattere gli elicotteri russi. La sua determinazione (i finanziamenti della sua operazione di guerra contro i sovietici arriveranno a toccare un milione di dollari) senza volerlo cambierà le sorti della storia. I sovietici abbandoneranno battuti l’Afghanistan nel febbraio 1989 alle soglie della fine dell’Unione Sovietica avvenuta il 25 dicembre 1991. Ritratto graffiante, ma colmo di ironia, del mondo politico americano visto dalle stanze del potere, il film del grande regista Mike Nichols (Il laureato, Comma 22, Conoscenza carnale, Silkwood) tratto dal romanzo di George Crile Il nemico del mio nemico e con la sceneggiatura ricca di sfumature comiche e drammatiche di Aaron Sorkin, si avvale di tre interpreti strepitosi, il simpatico e ironico Tom Hanks s, la cinica e gelida Julia Roberts e la spia navigata e disillusa Philip Seymour Hoffman. La guerra di Charlie Wilson scava nel passato della memoria politica statunitense raccontandoci una storia vera e poco conosciuta svelandoci una delle più importanti operazioni segrete mai realizzate. ”Wilson- afferma Hanks- è un politico diverso dalla norma, abituato alla sincerità totale. Non ha mai nascosto di amare ogni piacere della vita. Mi ha dato lezioni di stile: indossava sempre gli stivali colore viola scuro, in modo che potessero andare bene sia col nero che col marrone..). L’iniziativa del deputato texano cambierà la strategia politica americana contro la superpotenza rivale e costringerà il presidente Jimmy Carter a modificare il suo atteggiamento contro l’Urss (nel 1980 ci sarà il boicottaggio da parte degli Stati Uniti dell’Olimpiade di Mosca) fino ad allora piuttosto diplomatico. Girata in Marocco, dove è stato ricostruito l’Afghanistan e molto in interni, la pellicola ci mostra lo scarso potere degli elettori e dei cittadini lontani dalle stanze del potere, con cui ci si confronta solo con i sondaggi d’opinione e in occasione delle elezioni. Mike Nichols con questa commedia di grande garbo ci offre una seria riflessione sul potere dell’opinione pubblica nella società contemporanea.
Pierfranco Bianchetti
Marzo
Un thriller batteriologico con Dustin Hoffman che ha anticipato la realtà
Il dottor Sam Daniels (Dustin Hoffman) è un ufficiale medico al servizio dell’Istituto sanitario di ricerca per le malattie infettive dell’esercito americano. Il suo superiore, il generale Ford, lo incarica di svolgere una indagine delicata su un virus micidiale presente in Africa, nell’ intricata foresta africana dello Zaire dove negli anni Sessanta si era verificato un episodio simile in un accampamento americano. Sam parte in missione per studiare, affrontare e battere il virus “Motoba” che provoca febbre, sangue e tosse. Il dottore, un uomo dalle profonde convinzioni umanistiche e pacifiste, è spaventato dalla possibilità che la malattia possa diffondersi nel mondo, ma non è creduto dai suoi superiori e dalla sua ex moglie (René Russo). Invece presto si scoprirà che tale previsione era esatta perchè il morbo comincia a dilagare colpendo inizialmente la tranquilla cittadina californiana di Cedar Creek (un nome immaginario) dove gli abitanti muoiono come mosche tra atroci spasmi e con una rapidità impressionante. Che fare allora ? Mettere in quarantena gli abitanti per impedire ogni contatto esterno oppure bombardare il luogo considerando i poveri cittadini come vittime di guerra? Daniels con l’appoggio del generale Billy Ford (il buono, interpretato da Morgan Freeman), si rifiuta di essere complice di una soluzione crudele e spietata come quella del bombardamento, deciso dal Presidente degli Stati Uniti, e l’annientamento delle persone, lanciandosi invece in una dura lotta contro il tempo per scoprire gli anticorpi e il conseguente vaccino destinato a risolvere la situazione sanitaria. Girato nel 1995 ai tempi della scoperta di un nuovo micidiale agente patogeno di origine australiana capace di trasmigrare dai cavalli agli uomini, il film di Wofgang Peterson (“Nel centro del mirino”), tratto da un romanzo Area di contagio, scritto da Richard Preston e ispirato da un vero caso avvenuto nella realtà è un thriller avvincente purtroppo di grande attualità in questo momento che si avvale di un convincente Dustin Hoffman, che da grande professionista ha preparato il ruolo con grande serietà consultando moltissimi testi relativi alle ricerche su virus e intervistando di persona il dottor Don Francis, uno dei massimi esperti del campo. ”Motoba – affermava all’epoca il divo nel corso di un’ intervista rilasciata a Giuseppe Sacchi per la rivista italiana Ciak – potrebbe esser presto una realtà. Con le guerre, gli sconsiderati progetti edilizi nelle zone remote, continuiamo a sconvolgere l’ecosistema: così facendo è inevitabile che, disturbati nel loro ambiente naturale, i virus reagiscano attaccando. È un modo di autodifesa e i continui conflitti nel mondo possono aver “svegliato” qualche virus per anni a riposo e oggi, con i molteplici mezzi di trasporto, qualcuno potrebbe diffonderlo ovunque…”. Mentre usciva il film, fra l’altro, scoppiò in Zaire l’epidemia di ebola. Sono passati venticinque anni, ma probabilmente nessuno all’epoca poteva immaginare e prevedere una situazione drammatica come quella attuale. Ancora una volta la finzione cinematografica batte la realtà due a zero.
Pierfranco Bianchetti
Febbraio
Una vittima del sistema inquisitorio-mediatico: solo americano ?
Richard Jewell (Paul Walter Hauser) è un giovane sovrappeso di Atlanta che fa la guardia di sicurezza, ma sogna di diventare un poliziotto. Il 27 luglio 1966 nel corso di una perlustrazione dei luoghi dove si stanno svolgendo le Olimpiadi, Richard trova uno zaino abbandonato. Grazie alla prontezza di riflessi e al suo tempestivo intervento molte vite vengono salvate e il giovanotto diventa un eroe osannato da tutti i mass media. In pochi giorni clamorosamente però le cose cambiano e Jewell viene trasformato nel sospettato numero uno dall’FBI, diffamato sia dalla stampa che dall’opinione pubblica. Solo l’avvocato indipendente Watson Bryant (Sam Rockwell) lo aiuterà a difendersi dalle assurde accuse. Basandosi su fatti realmente accaduti, Clint al suo trentottesimo film, racconta la storia di ciò che può accadere quando quel che viene riportato oscura la verità. Ispirandosi anche a pellicole del passato come Il ladro, 1956 di Alfred Hitchcock con Henry Fonda, la vicenda reale di un povero musicista di New York arrestato ingiustamente su una indicazione di una testimone che lo scambia per un rapinatore a mano armata e Sono innocente, 1938 di Fritz Lang, ancora Henry Fonda nel ruolo di un ex malvivente accusato, ma non colpevole, di rapina e omicidio, Eastwood ci racconta una tipica “storia americana”. Il protagonista, benchè non molto simpatico agli spettatori ben lontani dalla retorica di Trump (ama le armi di ogni tipo che tiene regolarmente nella sua camera da letto ed è un fanatico della legge e dell’ordine) suscita comprensione per la ferocia con la quale i cosiddetti due poteri più potenti degli Stati Uniti, il Governo e la Stampa, si accaniscono su di lui, in pratica fabbricando ogni genere di prove al limite dell’illegalità. In particolare il mitico FBI esce da questa vicenda malamente per la stupidità con la quale affronta le indagini, mentre il mondo dell’informazione, identificato nel personaggio di una cronista rampante e spregiudicata, è mostrato in tutto il suo cinismo e opportunismo. Eastwood in qualche misura riprende il tema di una sua pellicola precedente, Sully, il capitano dell’aereo che il 15 gennaio 2009 aveva effettuato un difficile atterraggio di emergenza salvando così tutti i suoi passeggeri, per poi subire un’indagine da parte delle autorità competenti pronte a rovinare la sua reputazione professionale. Richard Jewell, che ha ottenuto una nomination ai Premi Oscar 2020 nella categoria Miglior Attrice Non Protagonista per Kathy Bates, prende spunto dall’articolo intitolato American Nightmare – The Ballad of Richard Jewell di Marie Brenner apparso su Vanity Fair e poi approfondito dal libro The Suspect: An Olympic Bombing, the FBI, the Media, and Richard Jewell, the Man Caught in the Middle di Kent Alexander e Kevin Salwen. Le riprese sono state effettuate negli stessi luoghi dove si è svolta la vicenda. Nel cast del film sceneggiato da Billy Ray, anche gli ottimi John Hamm, Olivia Wilde e Nina Arianda. Clint Eastwood si conferma un narratore cinematografico coi fiocchi, che ama raccontare gli eroi solitari, come il protagonista di Gran Torino, un pensionato reduce della seconda guerra mondiale che si batte nel suo quartiere contro pregiudizi; i tre amici di Ore 15:17- Attacco al treno, 2018, che a bordo di un vagone ferroviario in Europa sono coinvolti in un attacco terroristico; il giornalista ex alcolista di Fino a prova contraria, 2013, che salva dalla condanna a morte un innocente. L’ex ispettore Callaghan oggi sembra spaventato da un’America carica di insicurezza e smarrimento nella quale forse non si riconosce più.
Pierfranco Bianchetti
Gennaio
La dura vita di una donna in miniera alle prese con le violenze e i soprusi dei suoi compagni di lavoro maschi
Josey Aimes, giovane madre di due figli, Sam e Karen, ritorna dai genitori nel suo paese natale nel nord del Minnesota per sfuggire ad un marito violento. Siamo nei primi anni Ottanta e la donna deve affrontare molte difficoltà per adattarsi alla nuova situazione. La provincia americana nella quale è andata a vivere, caratterizzata da una mentalità razzista e sessista, non aiuta certo il suo inserimento sociale nella comunità. Dopo un periodo di lavoro come shampista in un salone di bellezza, su suggerimento di una sua amica, decide di entrare in miniera affrontando un lavoro duro, però maggiormente remunerato. Sottoposta ad umiliazioni e minacce dai suoi colleghi di lavoro maschilisti e retrogradi, la donna cui il coraggio non manca, si affida ad un avvocato in cerca di celebrità per far valere i suoi diritti e per difendersi dai continui tentativi di aggressioni fisiche. L’azienda presso cui lavora verrà allora portata in giudizio e sarà la prima causa americana contro gli abusi sessuali creando un precedente per tutte le successive rivendicazioni femminili. Tratto da una storia vera, il caso giudiziario Jenson v. Eveleth, il film fortemente voluto dalla protagonista Charlize Theron, è scritto da Michael Seitzman e ricavato in buona parte dal libro Class That Changed Sexual Harassment Law di Clara Bingham e Laura Leddy Gansler. La pellicola per nulla gradita al governo del Minnesota che ha rifiutato di riconoscersi nell’immagina negativa raccontata sul grande schermo, è interpretata da Charlize Theron, già affascinante modella sudafricana che si è aggiudicatala la sua seconda candidatura all’ Oscar dopo Monster, film nel quale recita nel personaggio di una prostituta trasformatasi in una serial killer dopo una vita di tormenti e sofferenze. Di straordinaria intensità è anche Frances McDormand nei panni di una sindacalista che sostiene la causa di Josey. North Country- Storia di Josey appartiene di diritto al filone liberal d’impegno civile del cinema americano incentrato sulle “donne coraggiose” e non sottomesse alla mentalità maschilista come le mitiche Thelma e Louise (Geena Davis e Susan Sarandon) dell’omonimo film diretto da Rydley Scott che fuggono insieme dalla loro soffocante realtà coniugale verso una vacanza di evasione; la determinata Sarah (Jodie Foster) in Sotto accusa di Jonathan Kaplan (altra vicenda tratta dalla realtà, quella di una ragazza che ha fatto incriminare una banda di giovinastri per averla violentata in un bar del Massachusetts); la risoluta dottoressa Dian Fossey (Sigourney Weaver) di Gorilla nella nebbia di Michael Apted, una studiosa dei gorilla della montagna dell’ Africa Centrale eliminata dai bracconieri. Anche il cinema italiano ci ha proposto negli ultimi anni tre figure di donna senza paura in Angela, 2002, un film di Roberta Torre con Donatella Finocchiaro nel ruolo della moglie di un piccolo boss della mafia di Palermo che si innamora di un giovane, il braccio destro del marito, sfidando le ferree regole del mondo mafioso; in La siciliana ribelle, 2008, Marco Amenta con Veronica D’Agostino nei panni di Rita, una diciassettenne figlia di un mafioso che per vendicare l’ assassinio del padre e del fratello diventa collaboratrice di giustizia, ma a causa della difficile vita da reclusa impostagli dalla sua condizione, finirà per suicidarsi e ancora in Nome di donna, 2017 di Marco Tullio Giordana con Cristiana Capotondi nel personaggio di Nina, una ragazza trasferitasi da Milano a un piccolo paesino della Lombardia per essere assunta in una residenza per anziani facoltosi. Qui però si imbatte in una realtà drammatica, la violenza alla quale sono sottoposte da anni molte donne lavoratrici italiane e straniere costrette a subire le attenzioni morbose del dirigente della struttura. Solo Nina trova la forza di ribellarsi e ingaggia una battaglia giudiziaria appassionante per difendere i suoi diritti di persona e la sua dignità umana.
Pierfranco Bianchetti
Dicembre
L’incredibile vicenda di tre brillanti astrofisiche afroamericane nella Nasa del 1961
All’ inizio degli anni Sessanta l’America è in forte competizione con l’Urss per la conquista dello spazio. Dopo il primo volo effettuato nel cosmo dal pilota sovietico Jurij Gagarin, l’opinione pubblica americana è sconvolta e frustrata dai successi degli avversari russi. In questo clima competitivo pochi hanno avuto modo di conoscere la storia straordinaria di un team di matematiche afro-americane della NASA che hanno contribuito alla vittoria americana nella corsa allo spazio contro i rivali dell’Unione Sovietica e, al tempo stesso, hanno dato una vigorosa accelerata al riconoscimento della parità di diritti e opportunità. Molti sanno i nomi dei coraggiosi astronauti che hanno compiuto quei primi passi nello spazio come John Glenn, Alan Shepard e Neil Armstrong, ma sorprendentemente i nomi di Katherine G. Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson (le attrici Octavia Specter, Taraji P. Henson e Jane Monae) non vengono insegnati a scuola né sono noti alla maggior parte delle persone, sebbene la loro energia e audacia, unite al ruolo fondamentale di ingegnosi “computer umani”, siano stati indispensabili alla NASA per realizzare i progressi che hanno reso possibile il volo dell’uomo nello spazio. Finalmente la vicenda di queste tre donne visionarie, che hanno superato le barriere professionali, è stata portata sul grande schermo da Theodore Melfi. Il film è ambientato in un’epoca che ha segnato un punto di svolta nelle più accese battaglie della storia americana: il progresso nella lotta per i diritti civili; il predominio nella Guerra Fredda senza arrivare al conflitto nucleare; il successo come prima superpotenza a portare l’uomo al di fuori del pianeta; la dimostrazione che, né la posizione sociale, né il genere incidono sulle straordinarie scoperte tecnologiche che hanno aperto la strada al futuro. Nonostante le discriminazioni subite (il bagno vietato alle donne nere come la pausa caffè e altre odiose disparità) frutto delle leggi di segregazione Jim Crow negli stati del sud, Katherine G. Johnson, oggi ultranovantenne, ha contribuito in maniera determinante a portare a termine positivamente la missione di John Glenn e della sua orbita spaziale intorno alla Terra suggerendo l’ uso di razzi posteriori attaccati allo scudo per facilitare il rientro della capsula danneggiata all’ impianto termico. Grazie al successo della missione, Katherine continuerà a lavorare per la NASA e in seguito calcolerà anche le traiettorie delle missioni Apollo 11 e Apollo 12. “Il diritto di contare” si aggiunge alle sempre più numerose pellicole che raccontano episodi storici della lotta di emancipazione dei neri. In ”La lunga strada verso casa” del 1990 di Richard Pearce, Whoopi Goldberg interpreta Rosa Park, una donna coraggiosa, che nel 1955 provocò il boicottaggio dei mezzi pubblici della città di Montgomery per essersi rifiutata di alzarsi in un autobus da un posto riservato ai bianchi. Nel 2012 “The Help” di Tate Taylor, una giornalista bianca anticonformista di Jackson, profondo sud degli Usa negli anni Sessanta, decide di far conoscere agli americani attraverso un libro la vita dei bianchi vista attraverso gli occhi di due domestiche di colore e “Loving” di Jeff Nichols ci svela un’altra storia autentica, quella di due giovani coniugi della Virginia, lui bianco e lei nera, costretti a fuggire nel 1959 per non essere arrestati avendo violato la legge che impedisce matrimoni misti. La strada per l’abolizione di ogni forma di discriminazione è ancora lunga, ma l’Hollywood multirazziale è comunque già una realtà.
Pierfranco Bianchetti
Novembre
Gli intellettuali spiati dalla Stasi nella Germania dell’Est: una tragedia moderna
Berlino Est 1984, il capitano della Stasi Gerd Wiesler (Ulrich Mühe), uomo integerrimo votato alla fedeltà verso il suo paese, viene incaricato di mettere sotto controllo il famoso drammaturgo Georg Dreyman (Sebastian Koch) sospettato di essere un oppositore del regime e di trovare le prove della sua colpevolezza. L’ intellettuale è sentimentalmente legato all’ attrice teatrale Christia-Maria Sieland (Martina Gedeck) molto popolare presso il pubblico tedesco dell’Est, che però è concupita dal potente ministro dello Spettacolo della Repubblica deciso ad eliminare così il suo rivale in amore. L’agente HGW XX/7 della Stasi di grande esperienza professionale attraverso le sue microspie e i suoi sofisticati sistemi di intercettazione entra nella vita privata dei due amanti registrando ogni loro parola, ogni loro azione scoprendo così un mondo a lui ignoto dominato dalla libertà di pensiero, dai principi morali ed etici che lo turbano. Ben presto Gerd sente che la sua granitica ideologia tende a vacillare. Scopre anche che lo scrittore utilizzando una macchina da scrivere arrivata dall’ Ovest, sta preparando segretamente un saggio sull’ alta percentuale di suicidi nella DDR da far pubblicare dall’ altra parte del Muro. Il funzionario, pur facendo di tutto per proteggere la coppia, non potrà evitare una conclusione tragica della vicenda. I superiori di Gerd scoprono il suo tradimento mettendo fine alla sua carriera di spia. Dopo la caduta della DDR e la riunificazione delle due Germanie, Dreyman nel preparare un romanzo intitolato “Sonata per gli uomini buoni” incentrato sulla sua vita spiata nel regime comunista, si rende conto della copertura ricevuta da Gerd Wiesler. Decide allora di rintracciarlo e lo trova mentre lavora come semplice fattorino. Vorrebbe fermarlo per esprimergli la sua gratitudine, ma poi non trova il coraggio. Due anni dopo l’ex spia sfogliando in una libreria il libro di successo dello scrittore leggerà con commozione la nota posta all’inizio dell’opera: “Dedicato a HGW XX/7, con gratitudine”. Vincitore a Hollywood della preziosa statuetta come miglior film straniero, ”Le vite degli altri” ha ricevuto anche altri numerosi premi tra i quali l’ European Award, il premio al Festival di Copenaghen, l’ Oscar tedesco e il nostro David di Donatello, oltre a un grande successo di pubblico. Interpretato da Ulrich Mühe, attore teatrale e televisivo cresciuto nella Germania Est, il film affronta un tema molto sentito, quello del destino di molti intellettuali poco amati dai regimi nei quali sono vissuti come i russi Boris Pasternak, Michail Bulgakov e il cecoslovacco Milan Kundera. I loro romanzi, rispettivamente “Il dottor Zivago”, “ll Maestro e Margherita” e “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, sono usciti molti anni dopo la loro stesura. Ironia della sorte lo stesso protagonista della pellicola diretta da Florian Henckel Von Donnersmarck, oppositore nella realtà del sistema comunista, nel preparare la sua interpretazione ha voluto accedere agli archivi della Stasi a disposizione dei cittadini tedeschi scoprendo così un fascicolo a lui intestato. All’epoca erano stati quattro colleghi della compagnia teatrale nella quale lavorava l’attrice Jenny Groellmann, sua moglie e la madre di suo figlio, a denunciarlo come probabile nemico della Stato. Ulrich Müher nel luglio 2007 a soli 54 anni muore nella sua casa in Sassonia per una grave malattia (la maledizione della Stasi ha colpito ancora!), ma il suo personaggio dagli occhi tristi continua ancora oggi a commuovere tutto il mondo.
Pierfranco Bianchetti
Ottobre
La vera storia di un’eroina dei nostri tempi
Nell’ America ancora tradizionale degli anni ’50, Ruth Bader Ginsburg è una studentessa che insieme ad altre otto colleghe di sesso femminile, riesce ad entrare alla prestigiosa Harvard Law School (è il 1956), nella quale si trasferisce soprattutto per seguire il marito che aveva iniziato a lavorare a New York. Ruth prosegue poi gli studi presso la Columbia University, dove consegue la laurea in legge nel 1959 battendosi duramente con il rettore misogino e conservatore. Nonostante i brillanti risultati, la neolaureata incontra enormi difficoltà a trovare lavoro presso uno studio legale, a causa del suo esser donna. Nel mondo legale newyorkese dovrà lottare per riuscire ad ottenere lo stesso spazio degli uomini e ancora di più nelle aule dei tribunali che non gradiscono la messa in dubbio di leggi consolidate negli anni. Pertanto è costretta ad accettare un’occupazione come insegnante presso la Rutger Law School. Nel 1970 il marito le propone di rappresentare un cliente per una piccola evasione fiscale. Apparentemente un caso modesto, presenta poi una discriminazione di genere: l’accusato deve pagare soltanto perché appartenente al sesso maschile. Ruth si presenta dinanzi alla corte d’appello e convince i magistrati dell’assurdità della legge, aprendo la strada per una maggiore eguaglianza sostanziale nella legislazione statunitense. Anche grazie ad una giurisprudenza pasticciata sull’ assistenza domestica, la Ginzburg vince una delle sue prime battaglie utilizzando paradossalmente una discriminazione nei confronti di un uomo creando le basi per demolire in seguito molte leggi incentrate sulla distinzione in base al genere. Ruth Bader Ginzburg popolare in America per le sue battaglie legali per i diritti delle donne è arrivata così a ricoprire per seconda l’importante carica di giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti diventando amata, temuta e anche imitata negli show televisivi. Questa figura di donna minuta e coraggiosa con il suo abbigliamento particolare (le giacche e i pantaloni stiratissimi) ha saputo contrastare nelle aule di tribunali i giovani avvocati rampanti. La regista Mimi Leder, affascinata dal personaggio, ci racconta la storia di un sogno, quello della parità tra uomini e donne, diventato realtà grazie alla determinazione di Ruth che per combattere il sistema maschilista e conservatore ha sgobbato sui libri di legge dimostrando di non essere da meno dei suoi colleghi. Sceneggiato da Daniel Stiepleman, il film, interpretato dalla bravissima attrice inglese Felicity Jones, è anche un ritratto familiare di Ruth sostenuta sempre dal marito Martin (Armie Hammer) e dalla figlia Jeane (Cailee Spaeny), che saprà convincere la madre, negli anni delle battaglie giovanili e della guerra del Vietnam, a modificare le leggi per adeguarle alla nuova situazione sociale e politica. L’ ottantaseienne giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti è già stata protagonista del documentario Alla Corte di Ruth- RBG del 2018 diretto da Julie Cohe e incentrato sul cambiamento della sua vita da avvocato femminista a icona di internet. La pellicola, presentata al Sundance Film Festival, ha ottenuto un grande successo di critica e di pubblico, tanto i suoi giovani fan ora collezionano t-shirt e tazze da caffè decorati con il suo volto. Una giusta causa (On the basis of sex) conferma come negli attuali tempi complicati e difficili, il cinema liberal americano sia presente con la sua battaglia civile e democratica. Così è stato negli anni duri e inquieti della Presidenza Nixon e dello scandalo Watergate contrastati con film memorabili quali La conversazione, Perché un assassinio, I tre giorni del Condor, Tutti gli uomini del presidente, che hanno messo in luce la corruzione e i complotti all’ interno della società statunitense.
Pierfranco Bianchetti
Settembre
Quando Winston Churchill guidò il Regno Unito contro il nazismo
10 maggio 1940. L’ Europa democratica sta subendo la devastante aggressione delle truppe di Hitler vittoriose su tutti i fronti. L’ intero esercito britannico con 300.000 soldati della Regina bloccati sulle spiagge di Dunkirk in Francia è sull’orlo della disfatta e l’invasione dell’Isola da parte dei nazisti è ormai una reale minaccia. Il coraggioso sessantacinquenne conservatore Winston Churchill riceve la guida del governo con urgenza e si trova a dover prendere drammatiche decisioni in tempi brevissimi. Inoltre il nuovo Primo Ministro deve anche combattere con le trame del proprio partito che lo considera non adatto a ricoprire questo alto incarico e con lo scetticismo di re Giorgio VI nei suoi confronti. La situazione è complicata: negoziare una pace con la Germania nazista salvando il popolo britannico a costi indicibili o combattere contro un destino che si mostra avverso? Con il prezioso supporto della consorte Clementine al suo fianco già da 31 anni, Churchill si rivolge al popolo britannico con l’ambizione di ispirare dignità e volontà di lottare per gli ideali della nazione, per la sua libertà. Riponendo nelle parole gran parte del proprio impegno, con l’aiuto dell’instancabile segretaria Elizabeth, Winston Churchill scrive e interpreta discorsi che guideranno la nazione. Stretto nella condizione di dover affrontare le ore più buie e dure della sua vita (significativa la sequenza del Premier seduto da solo come un comune cittadino nella metropolitana londinese, mentre si reca nel suo ufficio tra gli sguardi sorpresi dei passeggeri), Churchill riuscirà a cambiare il corso della storia per sempre. Sceneggiato da Anthony McCarten e diretto da Joe Wright, il film con la straordinaria performance di Gary Oldman nei panni di Churchill (trucco e parrucche di Ivana Primorac) e di Kristin Scott Thomas in quelli della moglie Clementine, per 125 minuti ripercorre con grande emozione una pagina fondamentale della Seconda Guerra Mondiale nella quale un uomo solo fu chiamato a prendere decisioni drammatiche per il Regno Unito e per l’intera democrazia europea vincendo le proprie crisi interiori e l’ ostilità dei suoi avversari grazie alla forte consapevolezza delle sue idee, quelle della lotta senza quartiere contro i nemici della civiltà. “Abbiamo di fronte molti, molti lunghi mesi di lotta e sofferenza!– dirà Winston in uno dei suoi più celebri discorsi- Anche se tanti vecchi e importanti Stati sono caduti nella morsa del dominio nazista, noi difenderemo la nostra isola quale che sia il prezzo da pagare! Combatteremo sulle spiagge, combatteremo sulle piste di atterraggio, combatteremo nei campi e nelle strade, combatteremo sulle colline! Non ci arrenderemo mai! Perché senza vittoria non può esserci sopravvivenza!”. La pellicola di Wright, oltre a regalarci un inedito ritratto dello statista britannico, ci offre anche una riflessione sul presente, un incoraggiamento per le democrazie europee che si trovano oggi a dover affrontare nuove sfide per difendere i principi di civiltà su cui si fondano le nostre istituzioni più rappresentative.
Pierfranco Bianchetti
Agosto
La stampa democratica americana contro il potere
Nel 1971, Katharine Graham (Meryl Streep) è la prima donna alla guida del The Washington Post in una società dove il potere fortemente in mano agli uomini e Ben Bradlee (Tom Hanks) è il duro e testardo direttore del suo giornale. Nonostante Kay e Ben siano molto diversi, la coraggiosa indagine portata avanti dai redattori del quotidiano, provocheranno la prima grande scossa nella storia dell’informazione con una fuga di notizie senza precedenti, svelando al mondo intero la massiccia copertura di segreti governativi riguardanti la Guerra in Vietnam per decenni. I due mettendo a rischio la loro carriera e la loro stessa libertà riescono a portare pubblicamente alla luce ciò che quattro presidenti hanno nascosto e insabbiato per anni. L’ inchiesta giornalistica si basa sui Pentagon Papers, una relazione top secret di 7.000 pagine piene di scottanti segreti governativi. Il documento, che era stato stilato nel 1967 per l’allora Segretario alla Difesa Robert McNamara, aveva un titolo banale, “Storia delle decisioni U.S. in Vietnam, 1945-66”. Il documento, diventato famoso in tutto il mondo, portava alla luce una verità a lungo nascosta: la vastità e la quantità di bugie raccontate sulla sanguinosa guerra in Vietnam da quattro diverse amministrazioni, Truman, Eisenhower, Kennedy e Johnson. I Pentagon Papers rivelavano che ognuno di quei Presidenti aveva ingannato l’opinione pubblica sulle operazioni americane in Vietnam. Mentre si sosteneva di volere raggiungere la pace, dietro le quinte i militari e la CIA erano protagonisti di una storia oscura di assassini, violazioni della Convenzione di Ginevra, elezioni truccate e bugie raccontate al Congresso. Queste rivelazioni erano particolarmente esplosive in un momento in cui i soldati americani, molti dei quali di leva, correvano rischi mortali in ogni momento. Alla fine, la guerra in Vietnam, terminata nel 1975, costò la vita a 58.220 giovani statunitensi e causò la morte di oltre un milione di persone. Danie Ellsberg, la fonte che aveva rivelato l’ esistenza dei Pentagon Papers, era un brillante analista della Rand Corporation che inizialmente aveva passato le fotocopie del documento al New York Times. Domenica 13 giugno 1971 il più grande quotidiano nazionale titola in prima pagina “Archivio Vietnam: gli studi del Pentagono rivelano 3 decenni di crescente coinvolgimento americano”. Ovviamente la rivelazione fa scoppiare l’inferno, ma il 15 giugno la Corte Federale su pressione dell’amministrazione Nixon impone al quotidiano il blocco della pubblicazione dei documenti che potrebbero mettere in pericolo la sicurezza nazionale. Non potendo più intervenire sull’ argomento il New York Time é costretto a farsi da parte lasciando il campo libero al Washigton Post, considerato più un giornale locale rispetto al blasonato quotidiano della Grande Mela. Il 18 giugno il Post per primo inizia a pubblicare parte del materiale ricevendo subito un ordine restrittivo dalle autorità governative. Fortunatamente un giudice federale annulla il provvedimento e il 30 giugno la Corte Suprema rigetta l’ingiunzione contro la pubblicazione considerandola di pubblico interesse, motivando la decisione con il fatto che la stampa non è destinata a servire coloro che governano, bensì quelli che sono governati. Nel frattempo numerosi altri giornali, seguendo l’esempio del New York Times e del Post, iniziano anch’essi – come segno di solidarietà – la pubblicazione dei Pentagon Papers.
La democrazia ha vinto! Per la prima volta nella sua lunga carriera Steven Spielberg dirige in The Post, pellicola dal ritmo avvincente capace di tenere lo spettatore incollato alla poltrona, la coppia premio Oscar Meryl Streep e Tom Hanks, come sempre strepitosi, in un classico film del filone liberal che ha visto opere rimaste nella memoria cinematografica quali Fragole e sangue; 1970; Il candidato, 1972; La conversazione, 1974; Perché un assassinio, 1974; I tre giorni del Condor, 1975; Tutti gli uomini del Presidente, 1976, per citare solo alcuni titoli. La Hollywood democratica torna a farsi sentire e la sua presenza nella realtà americana è più che mai necessaria…
Pierfranco Bianchetti
Luglio
La storia del primo grande pentito di mafia
Il pubblico in sala è tutto in piedi per applaudire alla fine della proiezione l’ultimo film di Marco Bellocchio, Il traditore, dedicato alla figura di Tommaso Buscetta, il primo vero pentito di mafia. Siamo al festival di Cannes 2019 e tredici minuti di applausi decretano il successo della pellicola che purtroppo sarà ignorata dalla giuria della kermesse cinematografica. Bellocchio da diversi anni aveva in mente di portare sul grande schermo questa tragica pagina della storia del nostro paese incentrata sul “Boss dei due mondi”, Tommaso Buscetta fuggito in Brasile e poi estradato in Italia. Il film mette a fuoco un periodo cruciale della potenza mafiosa, l’inizio degli anni Ottanta quando lo sviluppo e l’ascesa del commercio di eroina scatena una guerra tra Totò Riina e i Corleonesi contro le vecchio famiglie. Il bilancio dei morti cresce ogni giorno, mentre dall’ altra parte del mondo in Brasile, Tommaso Buscetta, fuggito prima che la sua esecuzione già definita, fosse messa in atto, si sente sempre più braccato. A Palermo sono stati uccisi due dei suoi figli e suo fratello. Fortunatamente per lui la Polizia Federale Brasiliana lo cattura e a tempo di record le autorità italiane ottengono la sua estradizione, mentre tutti i giornali mettono in evidenza il fatto. Dopo un tentativo di suicidio, il mafioso scortato dal poliziotto Gianni De Gennaro, il più fedele collaboratore del Giudice Giovanni Falcone, arriva in Italia dove si rende subito conto che per vendicarsi dei suoi nemici deve collaborare a pieno titolo con la magistratura. Inizia così un lungo rapporto fatto di confessioni, di riflessioni, di annotazioni sul mondo mafioso che permetterà all’ autorità giudiziaria di realizzare il primo Maxi-Processo contro il crimine organizzato con 475 imputati, 200 avvocati. Cosa Nostra però non demorde e prepara la sua controffensiva più violenta: il Giudice Falcone e la sua scorta sono uccisi dall’ esplosione di 400 kg di tritolo. Allora Buscetta decide di puntare molto più in alto. Le sue rivelazioni devono arrivare a sconfiggere definitivamente Riina fornendo i nomi dei politici più collusi con la mafia. Chiamato a testimoniare in numerosi processi, il pentito diventa una figura molo popolare presso l’opinione pubblica italiana, protagonista di libri e di articoli su giornali. Nel 1993 finalmente anche Riina viene arrestato, ma poi Buscetta compie un passo falso. Viene fotografato nel corso di una lussuosa crociera con la moglie nel Mediterraneo. Al processo Andreotti gli avvocati difensori del politico italiano si scatenano per rendere la sua testimonianza poco credibile, cui farà seguito una campagna di stampa fortemente diffamatoria per svilire la sua figura di collaboratore. Buscetta ormai malato e stanco lascia l’Italia per Miami sempre in attesa della rappresaglia mafiosa. Nell’ ultima inquadratura del film lo vediamo scrutare l’orizzonte con un fucile sotto braccio. Comunque vada a finire la sua avventura, lui sa che fuggire alla vendetta di Cosa Nostra è per lui stata una vittoria…. Interpretato da un eccezionale Pierfrancesco Favino, uno dei nostri attori più quotati, il film di Bellocchio contiene alcune sequenze memorabili, la festa dei mafiosi nella villa sul mare nei primi dieci di minuti di proiezione, le terribile sequenze del maxi processo con le donne dei mafiosi che urlano contro la Giustizia in difesa dei propri mariti, ma anche le eccezionali musiche di Nicola Piovani e soprattutto un cast di prim’ ordine con Luigi Lo Cascio, Fabrizio Ferracane, Nicola Calì, Vincenzo Pirrotta, Fausto Russo Alesi e molti altri ottimi interpreti. Probabilmente la sceneggiatura scritta da Marco Bellocchio, Ludovica Rampoldi, Valia Santella, Francesco piccolo, trascura un po’ la figura di Giovanni Falcone, il vero artefice della conversione del mafioso, ma anche poco spazio è dedicato al poliziotto Gianni Di Gennaro che con il Giudice martire di Cosa Nostra, ha contribuito a portare a termine uno dei successi storici nella lotta al crimine organizzato. Il traditore è un’opera che dovrebbe entrare obbligatoriamente nei programmi scolastici degli istituti superiori affinchè le generazioni di oggi e quelle future possano riflettere su quanto sia determinante la costante battaglia per la salvaguardia della democrazia, della civiltà, della giustizia. Valori che non si possono mai dare per scontati….
Pierfranco Bianchetti
Giugno
Good Night and Good Luck, 2005 di George Clooney
Quando la stampa democratica americana si ribellava al maccartismo
Il 5 marzo 1946 Winston Churchill in visita negli Usa alla presenza del presidente Truman pronuncia una frase considerata storica: “Da Stettino sul Baltico a Trieste sull’ Adriatico una cortina di ferro è scesa sul continente europeo”. È l’inizio ufficiale della Guerra Fredda che vedrà i due blocchi contrapposti, l’Urss e gli Stati Uniti d’ America, in una dura battaglia ideologica, propagandistica e spionistica per molti anni. Una cupa atmosfera di sospetto e di paura si diffonde negli Usa verso coloro che professano idee vicine al partito comunista, anche se questo è ammesso dalla legge. È la “caccia alle streghe” che coinvolgerà ampi settori della nazione nordamericana, tra i quali gli apparati statali e federali, la stampa e perfino Hollywood che sarà travolta da questa ondata di paranoia politica. Un periodo oscuro della storia statunitense dominato in particolare dalla figura sinistra del senatore del Wisconsin Joseph McCarthy a capo del Comitato parlamentare per le attività anti-americane, autore della celebre lista nera nella quale venivano inseriti scrittori, attori, registi, sceneggiatori, artisti e giornalisti accusati di tramare contro la democrazia. Non tutti però in quel periodo tormentato, che porterà di fatto alla definitiva sconfitta della sinistra Usa e delle organizzazioni sindacali dei lavoratori, sono disposti ad abbassare la testa e tra loro anche il celebre anchorman Edward R. Murrow della CBS. Nel 1953 venuto a conoscenza della famigerata lista di proscrizione per i “traditori della patria” solo perché di simpatie comuniste, non esita a svelare ai suoi fedeli telespettatori del suo show serale intitolato See It Now (che si chiude puntualmente con la sua frase “buona notte e buona fortuna”) questa campagna mistificatoria e reazionaria che calpesta ogni principio di libertà di pensiero e di parola sancito dalla Costituzione. Edward R. Murrow, nonostante le intimidazioni e le minacce perfino di morte ricevute dallo stesso McCarthy che lo ritiene manovrato dall’ Unione Sovietica, proseguirà la sua battaglia per la democrazia aiutato dall’ amico produttore Fred Frendly (George Clooney) contribuendo non poco a sconfiggere il clima fanatico del maccartismo. Il divo George Clooney, figlio di un giornalista, ha dedicato il suo bel film Good Night and Good Luck del 2005 al coraggioso anchorman interpretato dal bravissimo David Strathairn. L’ attore, che ha scritto la sceneggiatura insieme a Grant Heslov, non esita a rinunciare al ruolo principale per accontentarsi di un personaggio di secondo piano utilizzando il bianco e nero folgorante del direttore della fotografia Robert Elswit ed inserendo nella pellicola molti brani d’ epoca nei quali possiamo vedere tutta la violenza mistificatoria di McCarthy. Con una struttura drammaturgica di prim’ordine, l’opera, per nulla retorica e premiata al Festival di Venezia nel 2005 per la miglior sceneggiatura e per la migliore interpretazione di David Strathairn, è una riflessione sul potere del mezzo televisivo e sulla manipolazione dei mezzi di informazione. Good Night and Good Luck, impreziosito da una colonna sonora straordinaria (I’ve Got My Eyes Set on You; How High the Moon e TV Is the Thing This Year, i brani eseguiti da Dianne Reeves e dal suo complesso), è un film da rivedere oggi più che mai per constatare quanto il livello di falsificazione dell’opinione pubblica sia purtroppo sempre più efficace nella nostra società.
Pierfranco Bianchetti
Maggio
Sacco e Vanzetti, 1971 di Giuliano Montaldo
La notte del 22 agosto 1927 il calzolaio Nicola Sacco e il pescivendolo Bartolomeo Vanzetti vengono assassinati sulla sedia elettrica in seguito alla loro condanna per omicidio a scopo di rapina. Un delitto compiuto secondo gli inquirenti a Boston nel 1920, l’anno nel quale l’America è attraversata da un’ondata di repressione contro la classe operaia e i suoi scioperi a difesa dei diritti dei lavoratori. La prima guerra mondiale è terminata da due anni e il capitalismo americano, arricchitosi nel periodo bellico, teme gli effetti della rivoluzione d’ ottobre in Russia del 1917. Vuole contrastare gli scioperi nelle fabbriche alimentati anche dai lavoratori immigrati e dalle minoranze etniche organizzate dalla sinistra americana. In questo clima vi è bisogno di buttare fuori i “rossi” dalla società per poter mantenere intatti i privilegi della borghesia più reazionaria. Si mobilità così una campagna di menzogne e di falsità per screditare gli anarchici, i comunisti e i socialisti soprattutto stranieri. Sacco e Vanzetti, assolutamente estranei al crimine loro attribuito, nonostante la brillante difesa dei loro avvocati che smonta le teorie astratte dagli accusatori, sono condannati alla pena più severa. Sette anni di lotte accanite in tribunale e una mobilitazione internazionale che vede in prima linea personalità del calibro di Roman Rolland, G.B. Shaw e Albert Einstein, non impediscono l’esecuzione del “delitto più atroce compiuto in questo secolo dalla giustizia umana” come lo definirà il presidente Franklin Delano Roosevelt. Nel 1971 il regista Giuliano Montaldo, basandosi su di una accurata ricostruzione storica e documentaria, firma il film Sacco e Vanzetti interpretato con bravura e sentimento da Gian Maria Volonté (Vanzetti) e da Riccardo Cucciolla (Sacco), che si avvale delle musiche di Ennio Morricone con al centro due canzoni emozionanti eseguite da Joan Baez. Corredata da una serie di cinegiornali d’epoca in bianco e nero, la pellicola ottiene grande successo e si porta a casa molti premi internazionali. Montaldo, basandosi anche su di un vecchio film Sotto i ponti di New York diretto nel 1935 da Alfred Santell; sulla piéce teatrale Sacco e Vanzetti di Roli e Vincenzoni con Volonté protagonista e su un Teatro inchiesta televisivo girato in America, ma per lungo tempo mai trasmesso dalla nostra Rai, mette in scena uno spettacolo cinematografico emozionate e sincero. L’ ondata di odio contro gli stranieri e i diversi giunti a cercare fortuna nella società americana, ci induce oggi più che mai ad una riflessione sul nostro tempo. Dopo cinquant’anni dalla terribile ingiustizia, il 19 luglio 1977, il governatore del Massachusetts riabiliterà ufficialmente la memoria di Sacco e Vanzetti, vittime innocenti della ferocia reazionaria. Nick e Bart, come erano chiamati in America, continuano a rappresentare un monito contro ogni forma di discriminazione nei confronti degli immigrati e dei diversi.
Pierfranco Bianchetti
Aprile
La fiamma del peccato, 1944 di Billy Wilder
A sessant’ anni dalla scomparsa dello scrittore Raymond Chandler (30 marzo 1959), il re del noir “Ho ucciso per denaro e per una donna e non ho preso il denaro e non ho preso la donna. Bell’ affare”. Questa amara constatazione di un fallimento, Walter Neff (Fred MacMurray), agente d’ assicurazioni, la incide nel dittafono; una confessione in piena regola che l’uomo ferito, detta di notte nel suo ufficio deserto, quando ormai la sua situazione è disperata. Tempo prima si era recato a casa Dietrichson, una linda villetta sulle colline di Los Angeles, per il rinnovo di una polizza auto, facendo conoscenza con la padrona di casa, la seducente Phyllis (Barbara Stanwyck), una donna dalla sensualità prorompente. Questa “perfida” dark lady in breve tempo diventata la sua amante, lo convince a mettere in atto un piano delittuoso: uccidere suo marito dopo avergli fatto sottoscrivere un nuova polizza assicurativa con la clausola della “Doppia indennità” (titolo originale del film e del romanzo), un raddoppio dell’indennizzo previsto nel caso di decesso del sig. Dietrichson in circostanza particolari. Dopo l’omicidio avvenuto durante un viaggio, la compagnia di assicurazione incarica il detective Baron Keyes (Edward G. Robinson), amico di Neff, di indagare sulla vicenda. Ben presto i due amanti capiscono di essere stati scoperti e la loro passione amorosa si trasforma in rancore e in sospetto… Candidato a sette Oscar, il film diretto dal viennese Billy Wilder emigrato in California come altri intellettuali europei sfuggiti al nazismo, è tratto dal romanzo d James M. Cain, scritto nel 1936 ed uscito a puntate sulla rivista Liberty, ma ispirato ad un fatto reale di cronaca, l’ assassinio del marito di una donna newyorkese avvenuto con la complicità di un agente delle assicurazioni, al fine di spartirsi il denaro della polizza stipulata dall’ ignaro coniuge. La pellicola è sceneggiata dallo stesso Wilder e da Raymond Chandler, sotto contratto dal 1943 per la Paramount, così come altri giornalisti e scrittori approdati negli anni Trenta e Quaranta da New York a Hollywood. Il film, uscito negli Usa nel 1944, ottiene un grande successo collocandosi tra i classici del genere thriller. Un’ opera che rompe un tabù fino ad allora inviolabile: i criminali non sono più solamente i gangsters, ma i cittadini borghesi che dietro la loro facciata rispettabile, nascondono un’ingordigia per il denaro, tipica della società americana della fine della seconda guerra mondiale. La fiamma del peccato avrà un celebre remake, Brivido caldo, 1981 di Lawrence Kasdan, con la coppia “esplosiva” formata da Kathleen Turner e Wiliam Hurt.
Pierfranco Bianchetti
La musica di Miklós Rózsa
https://open.spotify.com/track/7KxdXHFTLVdwSVGoXUq6mP?si=kKh1BIHDTUqmhmHActM_EA
Marzo
Amicizia ed emarginazione nella metropoli newyorkese
Un lavapiatti texano Joe Buck (Jon Voight) lascia il suo paese per trasferirsi a New York convinto che nella metropoli potrà arricchirsi soddisfando come stallone ricche signore (“pare che da quelle parti-dice- gli uomini siano tutti froci”). Arrivato nella tentacolare città scopre però che la realtà è molto diversa. La sua “carriera” di seduttore sarà un disastro costringendolo a vendere il proprio corpo ad omosessuali nei cinema più squallidi, diventando così il “cow boy di mezzanotte” del titolo originale. Poi incontra nei bassifondi Ratso (Dustin Hoffman), un ex carcerato storpio e tisico, che sopravvive con piccole truffe ai danni dei più disperati di lui. I due, dopo un primo momento di tensione, diventano inseparabili condividendo un alloggio in uno stabile dichiarato inagibile. Ratso sogna di raggiungere la Florida, dove potrà curare i suoi polmoni grazie al clima mite, ma per intraprendere il viaggio in autobus verso il sole mancano i soldi necessari. Alla fine Joe si improvvisa rapinatore per procurasi la somma necessaria e i due finalmente partono. Purtroppo ad un passo dalla “salvezza” l’amico malato muore in autobus e per il lavapiatti texano non rimarrà che organizzare il suo funerale decidendo poi di rimanere a vivere in Florida alla ricerca di un vero lavoro.
Sottolineata dalla contagiosa canzone di grande successo “Everybody’s Talkin” cantata da Harry Nilsson, il film ottiene un successo strepitoso anche se sarà accusato di mostrare con cinismo una faccia dell’America deprimente e senza speranza, quella dell’emarginazione sociale. John Schlesinger, il regista britannico del “Free cinema”, alla sua prima prova cinematografica in terra americana, firma un’opera intensa rimasta nella memoria dello spettatore e baciata da tre Oscar, miglior film, migliore regia e migliore sceneggiatura. La visione di New York con le sue contraddizioni, città di grandi possibilità e nello stesso tempo luogo di disperazione per molti, è tra le più interessanti viste sullo schermo in quel periodo. Memorabili alcune sequenze come quella della matura prostituta interpretata dalla bravissima Sylvia Miles, una bionda appassita che riesce a farsi pagare dal cow boy biondo convinto, dopo averla abbordata per strada, di diventare il suo gigolò. Il film alla sua uscita nelle sale è preso di mira dalla censura per i suoi argomenti, la prostituzione e l’omosessualità, considerati scabrosi, ma grazie al coraggio dell’ Academy Awards che decide di premiare una pellicola vietata ai minori, si potrà scoprire quanto il pubblico americano sia ormai diventato maturo e pronto ad accettare anche sul grande schermo la realtà sociale sotto gli occhi di tutti. Schlesinger nel puntare la sua cinepresa sulle relazioni umane si conferma un grande cineasta, autore di opere di grande valore quali “Domenica, maledetta domenica”, “Il maratoneta”, “Yankees”.
Pierfranco Bianchetti
Everybody’s talking
https://open.spotify.com/track/3c8JemHol1XwFFruXQxjCO?si=iS7lH0sqRnWJAFlxvouVcg”
Febbraio
Gangster e sbirri nella metropoli americana di notte
“New York, otto milioni di persone, otto milioni di storie. Questa è una di esse” così recita la voce fuori campo di La città nuda, il film diretto da Jules Dassin e prodotto da Mark Hellinger, considerato un vero classico del noir americano. La New York del dopoguerra, la New York di notte, dove il sottobosco della malavita spesso la fa da padrone, preoccupa la polizia cittadina che combatte con grande determinazione il crimine. Tra le tante vittime della metropoli vi è anche una bella ragazza di origini cecoslovacche, trovata assassinata. L’ispettore di polizia Don Muldoon e il suo giovane assistente Jimmy Halloran sono incaricati delle indagini. Scavando tra le sue amicizie, i due detective riescono ad individuare due nomi, Frank Niles e Philis Handerson. In casa di quest’ ultimo si scopre un anello appartenuto alla vittima. Dopo il ritrovamento nell’ Hudson di un nuovo cadavere di donna, il cerchio investigativo si chiude. Frank Niles è arrestato come membro, insieme alla giovane, di una banda di ladri e ricettatori. Nella rete cade anche Bill, un lottatore di professione inseguito dai tutori dell’ordine per le strade della città, ma alla fine ucciso sui tralicci del ponte di Brooklyn. Girata con stile documentaristico, la pellicola è il più classico esempio del filone detto neonaturalismo che s’ispira al nostro neorealismo; una riflessione e una denuncia sulla violenza nella civiltà urbana ben lontana dai classici noir degli anni Trenta e Quaranta. Hollywood ha intuito la novità vincente del nostro neorealismo con le sue storie autentiche di vite e gli attori spesso presi dalla strada. Nasce così l’esigenza di un cinema diverso realizzato nelle strade e nei quartieri, dove le troupe cinematografiche si muovono tra la gente comune e non più negli studios con le scenografie di cartapesta. Inoltre il male di vivere della società moderna emerge inesorabilmente diffondendo un pessimismo legato alla fine della guerra dovuto anche all’ amarezza e alla delusione nei reduci dal fronte convinti di affrontare una nuova vita più serena e prospera. Con la straordinaria ed originale musica di Miklòs Rozsa e la fotografia notturna di William Daniels, il film di grandissimo successo di pubblico, viene però messo sotto inchiesta dal maccartismo e segnalato come sospetto al Comitato per le attività antiamericane. Per Dassin è l’inizio di un periodo difficile di isolamento che lo costringe a rifugiarsi nel teatro curando la regia di due spettacoli a Broadway. Dopo la morte improvvisa di Hellinger realizza per la 20th Century Fox I corsari della strada, un’indagine sulla corruzione dei sindacati dei camionisti italiani a San Francisco, che anticipa di qualche anno il mitico Fronte del porto di Elia Kazan. Per sottrarsi al clima pesante dell’azione maccartista nel 1950 si trasferisce a Londra, dove firma I trafficanti della notte con un memorabile Richard Widmark nel ruolo di un piccolo truffatore appartenente al mondo ambiguo del catch, la lotta libera truccata. Ritornato a New York, ma bollato dalla commissione McCarthy come “comunista” e messo all’indice, è costretto a prendere definitivamente la via dell’esilio.
Pierfranco Bianchetti
La Musica è di Miklós Rózsa, ungherese, compositore di musica classica. Nel 1942 gli vengono commissionate le musiche per il film ”Il libro della giungla” ed egli ne scrive un poema sinfonico dove la voce di ogni animale è abbinata ad uno strumento musicale. Si trasferì a Hollywood alla viglia della seconda guerra mondiale, si dedicò alle colonne sonore e vinse tre Oscar, 1946 per “Io ti salverò” di Alfred Hitchcok, 1948 per “Doppia vita” di George Cukor e 1960 per “Ben Hur” di William Wyler. È il musicista delle più grandi produzioni hollywoodiane dal 1940 al 1980. Morì a 88 anni a Los Angeles.
https://open.spotify.com/track/7jpcg77frZEbQas4zWgvCP?si=WbDK5FtCRImgMVCjR_0Ptg
Gennaio
Fra le macerie si aggira Orson Welles, genio del male
Vienna 1948. Tra i grandi edifici barocchi, trasformati in quartier generale delle truppe alleate e dei sovietici che ancora occupano la città (un tempo allegra e mondana), si aggirano loschi individui trafficanti in ogni genere di merce. Sono i nuovi criminali prodotti dal clima di disfacimento morale del dopoguerra. Tra le strade strette ed angolate (rese ancora più angosciose dalla fotografia superba di Robert Krasker, premio Oscar 1949), si svolge la torbida vicenda di Il terzo uomo, film diretto da Carol Reed nel 1949. Holly Martin (Joseph Cotten), un modesto scrittore di racconti western, cerca di far luce sulla morte dell’amico Harry Lime (Orson Welles). Indagando a destra e a manca, Martin scopre che in realtà Harry è ancora vivo ed è dedito al contrabbando della penicillina, a quel tempo medicina rara e molto ricercata. È allora che compare in scena un minaccioso “terzo uomo” (ma scopriamo poi trattasi dello stesso Harry Lime). La storia in seguito si complica con l’arrivo di Anna (Alida Valli), un’attrice di cui Holly si innamora. Nel finale i due uomini ormai rivali (lo scrittore ha denunciato Harry alla polizia,) si inseguono nelle fogne della città, dove il terzo uomo muore. Premiato a Cannes nel 1949, il film è il frutto del sodalizio artistico di Carol Reed e dello scrittore Graham Greene (lo spunto viene da una semplice frase di Greene trasformata in un soggetto cinematografico). Non a caso la pellicola sostenuta da un chiaro-scuro fantastico e dalla musica della cetra del tirolese Anton Karas, il cui tema Harry Lime farà il giro del mondo, contiene tutti i temi classici del romanziere inglese, il peccato, il fallimento, l’ amicizia ecc. Orson Welles, affascinato dall’ originale copione, decide di partecipare alla lavorazione a pieno titolo, facendo ampliare la sua parte, inizialmente confinata in poche sequenze. Tra giochi d’ ombra e atmosfere d’ angosciosa inquietudine, l’opera di Reed si segnala come una delle pellicole più importanti del dopoguerra ancora oggi in grado di trasmettere la sua forte carica di suspence e di suggestione. Non lontano da certe ispirazioni espressioniste e dal miglior poliziesco americano, Il terzo uomo ottiene all’ epoca un grandissimo successo anche per merito della figura del brillante genio nero interpretata da Welles, che però alla fine sarà sconfitto dalla mediocrità rappresentata dal personaggio di Joseph Cotten. Nel cast, oltre alla brava e fascinosa Alida Valli nel pieno della sua carriera, si distingue anche Trevor Howard nel ruolo del maggiore Calloway della polizia militare. Le barriere, i confini tra i vari settori della città, il clima freddo non solo meteorologico, ma anche politico della divisione dell’Europa di quel periodo, ci ricordano qualche cosa di pericolosamente attuale, la determinazioni di certe nazioni e di certe forze politiche che vorrebbero ripristinare la chiusura delle frontiere e la conseguente esclusione di parte dell’ umanità. Il contrario dei principi su cui si è fondata molti anni or sono l’Unione Europea.
Pierfranco Bianchetti
Dicembre
L’ odissea di un gruppo di disperati verso un mondo migliore.
In un piccolo paese della Sicilia la chiusura della zolfara locale mette in ginocchio li lavoratori e le loro famiglie. Non rimane che la strada dell’emigrazione in Francia, una nazione in grado di offrire un futuro a tutti. Guidati da Ciccio, il vedovo con prole Saro, una coppia di innamorati, la giovane Barbara e il suo innamorato, un individuo pregiudicato e altri, partono affrontando un lungo viaggio difficile e rischioso (la loro è un’emigrazione clandestina) attraverso un’Italia povera e disperata dopo cinque lunghi anni di guerra. Quando Ciccio scompare alla stazione di Napoli, i migrati faticano a proseguire il viaggio. Dopo essere finiti casualmente in mezzo ad uno sciopero di contadini, devono affrontare molte altre disavventure tra le quali una sorta di duello rusticano tra due uomini della piccola comitiva provocato dalla gelosia per la bella Barbara. Arrivato al confine in mezzo ad una bufera di neve, il gruppo riesce finalmente a passare la frontiera grazie alla generosità di due doganieri francesi. Pietro Germi, che aveva appena diretto In nome della legge, una pellicola dedicata al tema scottante della mafia, realizza questo ritratto di disperazione sociale capace ancora oggi di suscitare molto commozione ed emozione e che dovrebbe provocare negli spettatori di oggi una banale riflessione: come è cambiato il nostro paese che ha cancellato la memoria delle sofferenze patite dalle generazioni di lavoratori costretti a lasciare, negli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta, le loro case e i loro affetti per cercare all’ estero un futuro migliore. Scritto da Federico Fellini e Tullio Pinelli e tratto dal romanzo Cuori negli abissi di Nino Di Maria, il film ha vinto l’Orso a Berlino nel 1950.
Pierfranco Bianchetti
Nella colonna sonora, scritta da Carlo Rustichelli, vi era la prima esecuzione di “vitti ‘na crozza” la cui musica, scritta dal maestro Francesco Li Causi, accompagna un testo che lo stesso Li Causi aveva ascoltato recitato da un anziano minatore, Giuseppe Cibardo Bisaccia.
Vidi un teschio
Vidi un teschio sopra una torre,
fui curioso e volli sapere.
Esso mi rispose “Che gran dolore,
morire senza rintocco di campane”.
Se ne andarono, se ne andarono i miei anni.
Se ne andarono, se ne andarono, non so dove.
Ora che sono arrivato a ottant’anni,
il vivo chiama e il morto non risponde.
Preparatemi, preparatemi questo letto
che dai vermi sono mangiato tutto.
Se non lo sconto qua il mio peccato,
lo sconterò in quella vita, a sangue rotto.
Esso mi rispose “Che gran dolore,
morire senza rintocco di campane!”.
(traduzione da www.dossier.net)