Pubblico qui un articolo di Giovanni Guzzetta, tratto da “Il Rifomista, pag. 7 di oggi 5 novembre 2020, che condivido totalmente (LC)
Lo avete letto il decreto? Il gioco di matrioske: l’ultima trovata di Conte è stata quella di affidare tramite un Decreto del presidente del consiglio dei ministri (Dpcm), al ministero della Salute, il potere di aprire e chiudere tutto senza una legge: cancellato il principio di legalità.
Con il Dpcm adottato ieri lo smottamento del nostro sistema costituzionale subisce un ulteriore salto di qualità. Tanto più preoccupante se si pensa allo sforzo messo in campo dal presidente della Repubblica, in queste stesse ore, per favorire una maggiore cooperazione istituzionale per restituire centralità al rapporto tra Governo e Camere, il cuore del circuito democratico.
Tra l’altro quello adottato ieri non è un Dpcm, diciamo così, qualunque, ma un atto che introduce un articolato meccanismo attraverso il quale affrontare la fase critica della seconda ondata. Fino alla possibilità di reintrodurre, nei fatti e su base regionale, qualcosa di molto simile a quel lockdown che così profondamente ha già inciso sulle libertà fondamentali dei cittadini. A fronte di tutto ciò, il metodo per realizzare questa strategia segna una cesura preoccupante.
Mi riferisco a quanto previsto dall’art. 2 del Dpcm, il quale attribuisce a una ordinanza del ministro della Salute, sulla base di alcuni parametri di monitoraggio e di dati elaborati dalla cabina di regia, se collocare o meno una Regione nella cosiddetta “fascia rossa” con tutta una serie di conseguenze in termini di limitazione di diritti fondamentali, a cominciare da quello alla circolazione, al lavoro e all’iniziativa economica. Sarà poi sempre il ministro a constatare il venir meno di quelle condizioni, con un margine discrezionale, per darvi seguito, di ben 14 giorni (comma 3 dell’art. 2). Insomma tutto il potere al ministro della Salute, nei limiti di vincoli, in parte predefiniti, in parte rimessi alle sue discrezionali valutazioni (si veda anche il comma 2 dell’art. 2).
Non si era mai arrivati a questo punto.
Infatti non c’è forse principio più consolidato nella nostra Costituzione di quello che prevede che qualsiasi nuovo potere amministrativo o normativo deve avere nella legge il proprio fondamento. È il cosiddetto principio di legalità, di cui la Carta è integralmente innervata, ma che trova il proprio punto di emersione, tra l’altro, negli artt. 23 e 97, oltre che essere presupposto da tutti gli articoli che riconoscono i diritti fondamentali. Insomma, perché un organo, compreso il ministro della Salute, possa esercitare un qualsiasi potere deve esserci una legge o un atto avente forza di legge che quel potere gli attribuisce, oltre a specificarne, almeno a grandi linee, il modo in cui esso deve esercitarlo. È questo il motivo per cui, con una scelta per altri versi criticabile, il potere di emanare i Dpcm è stato previsto da due decreti legge. Così come i poteri di ordinanza delle varie autorità sono anch’essi previsti da specifiche leggi.
Persino il ministro della Salute ha un potere di ordinanza, ma questo potere è previsto e disciplinato dall’art. 32 della L. 833/1978, «con efficacia estesa all’intero territorio nazionale o a parte di esso comprendente più regioni». Non può essere rimodulato da un Dpcm. Né si può dire che, essendo previsto in generale, quel potere ministeriale può applicarsi anche in questo caso. Prova ne è che c’è voluto il Dpcm per regolarlo e senza il Dpcm esso spetterebbe al presidente del Consiglio, proprio in forza dei decreti legge predetti, e non certo al ministro.
Con i poteri pubblici non si può fare il gioco delle tre carte. Insomma, non c’è fondamento legittimo per l’esercizio di attribuzioni, così penetranti e invasive, che consentano al ministro della Salute di decidere il destino di una Regione (e dei suoi cittadini), senza, peraltro, nemmeno l’intesa con la stessa. Nel nostro caso, per la prima volta dall’inizio della pandemia e, forse, nella storia repubblicana, questo potere non è attribuito dalla legge e nemmeno da un decreto legge, ma dal presidente del Consiglio dei ministri. Il quale diviene così legislatore, sottratto ai vincoli del principio di legalità. Si tratta di una grave e preoccupante rottura del sistema. Un salto di qualità, appunto, nello smottamento di cui si parlava.
Se il dpcm fosse stato sottoposto all’emanazione del presidente della Repubblica, siamo certi una cosa del genere non sarebbe mai potuta accadere, ma purtroppo i Dpcm sono sottratti al controllo presidenziale, al controllo dei cittadini o del Parlamento e persino al controllo della Corte costituzionale. Motivo per cui si è potuti arrivare sin qui.
La cosa più grave è che ormai di smottamento in smottamento si va smarrendo qualsiasi sensibilità per queste distorsioni, assuefatti come siamo al gioco di matrioske in cui, a furia di rinvii da un potere all’altro, rischiamo di perderci per strada il principio di legalità. In questi mesi, autorevoli commentatori (da ultimo ieri il presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick) non si sono stancati di segnalare rischi e criticità di questo modo di procedere in cui, in nome dell’emergenza, si persegue solo la logica del fine che giustifica i mezzi. Anche quando i mezzi incidono nella carne viva delle nostre libertà.
E, spesso per carità di patria, si è cercato di usare un pudore linguistico, spingendosi al massimo a dire che si era ormai “al limite della Costituzione”. A questo punto, però, anche a fronte dello sforzo, esattamente in senso opposto, di ricucire un tessuto di leale collaborazione tra Governo, Parlamento e Regioni, la domanda, come usa dire, sorge spontanea. Ma quanto sono elastici questi limiti della Costituzione? È ammissibile che scelte così fondamentali per la nostra vita siano sottratte prima al Parlamento, poi al Governo e adesso al Presidente del Consiglio, per benevola concessione del medesimo, per atterrare nelle mani di un Ministro, senza uno straccio di legge che lo preveda?
Il diritto ha bisogno di certezze, non solo per ragioni di forma, che comunque, come ricordava Rudolph von Jhering “è il nemico giurato dell’arbitrio”, ma anche perché la certezza consente ai cittadini di capire, di adempiere ai propri doveri e soprattutto di avere fiducia che le proprie istituzioni siano ben piantate nei valori costituzionali che tengono insieme la nostra convivenza.
Al di là, può esserci solo il caos.
Giovanni Guzzetta
(da Il Riformista pag. 7 – giovedì 5 novembre 2020)