Il Nord del Paese (dal Friuli alla Liguria) è in mano al centrodestra e il PD non può pensare di vincere le elezioni, se non recupera il Nord. Ma forse il PD aspetta di perdere anche l’Emilia Romagna, che questo autunno andrà al voto regionale, per darsi una mossa. Sono sicuro che i dirigenti locali del PD hanno esaminato e stanno esaminando, con scrupolo antico, e in modo analitico, i risultati delle politiche e delle europee. Ma forse le forze del centrosinistra nazionale non hanno ancora capito che non basta la buona amministrazione locale e amministratori validi, lasciando a casa i mediocri e gli arrivisti: occorre una politica nazionale, degli obiettivi programmatici nazionali che diano credibilità al centrosinistra. Altrimenti la causa è persa in partenza, nonostante gli sforzi locali. Facciamo due conti: nelle precedenti regionali, se non erro, il centrosinistra ha vinto con il 49% dei voti del 38% di elettori: un assenteismo, diciamo preoccupante, quindi di fatto è stato eletto dal 19% degli emiliani romagnoli. Ora, alle europee, su nove province, in tre (Reggio Emilia, Bologna e Ravenna) il PD è il primo partito; in tutte le altre è la Lega, votata dal 22% degli aventi diritto. Il PD ha avuto il 20% e le 5S solo l’8%. Faccio sempre riferimento agli elettori, non ai votanti, perché basta un piccolo movimento, dall’astensionismo al voto e viceversa, per cambiare il risultato: alle europee non ha votato un terzo dell’elettorato, ovvero più di un milione e centomila aventi diritto.
Mi sembra evidente che ci siano varie componenti emozionali e programmatiche nel voto alla Lega: la sicurezza, l’immigrazione, le tasse. Temi che pesano in maniera differente sull’elettorato della città e della campagna, dal centro verso la periferia.
Ma oltre a questi temi che bisogna affrontare con decisione, pesa, come forse anche il voto comunale ha evidenziato, una richiesta di cambiamento, di superamento del vecchio sistema di governo, che premia la Lega perché sembra affidabile come ceto amministrativo.
Orbene, bisogna che in questi mesi si sviluppi una campagna, nel Nord come in Emilia Romagna, sulla inutilità del voto alla Lega: le regioni più sviluppate del Paese hanno bisogno di stare in Europa, anche con proposte innovative, e si debbono affidare a forze politiche che contano nello scenario politico istituzionale europeo. Le vicende di questi giorni delle nomine europee hanno dimostrato che la Lega non conta, è isolata: i suoi deputati non sono in grado di fare alleanze con i partiti e i Paesi principali, anzi votano contro il candidato italiano e votano un ceco. Non è certo con i quattro Paesi di Visegrad che risolviamo i problemi della nostra economia.
E d’altra parte a livello nazionale la Lega non ha mantenuto la promessa di maggiore autonomia regionale, per una amministrazione della cosa pubblica più efficace ed efficiente. Per non scontentare le regioni del Sud e le 5S, e non far saltare le poltrone governative, la Lega sacrifica il principio della responsabilità amministrativa nella gestione dei fondi pubblici. Il Presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini ha presentato un bel progetto, che non toglie neanche un soldo al Sud, un progetto, fra l’altro, discusso con tutte le strutture territoriali, sociali, economiche, culturali e con gli enti locali della regione: lo ha fatto, non facendo buttare via soldi in referendum regionali, come hanno fatto Lombardia e Veneto (titolo, quest’ultimo, di ulteriore merito per Bonaccini e il PD). Ma il PD nazionale lo ha lasciato solo.
Sorprende infatti che il PD non incalzi il governo su questo tema e sorprende ancora di più, non solo per l’aiuto che può dare all’Emilia Romagna, ma per varie ragioni politiche. Stiamo parlando di una norma costituzionale voluta dal centrosinistra, votata con un referendum, e quindi con il sostegno di un consenso popolare e inoltre il governo Gentiloni ha approvato una bozza di intesa a febbraio 2018 con l’Emilia Romagna, il Veneto e la Lombardia.
Ma stiamo parlando anche di una proposta che oggettivamente è un cuneo politico tra la Lega e le 5S, e anche tra la Lega salviniana lepenista e la Lega padana di Zaia, Fontana e Maroni. Rimango un po’ stupito che le forze del centrosinistra non vadano all’attacco su questo punto: se pensano di recuperare voti al Sud, non sostenendo l’autonomia differenziata, fanno un magro calcolo. Siamo già in una situazione di autonomia regionale differenziata: da una parte le Regioni a statuto speciale, fatte quando non c’era ancora all’orizzonte l’Europa, e dall’altra il malgoverno, gli sprechi, la cattiva gestione dei trasferimenti statali in Regioni dove l’abusivismo. L’assistenzialismo e l’illegalità è ampiamente presente. Fra l’altro, fare la campagna del sud contro il nord, è un clamoroso errore politico del centrosinistra, che mette sullo stesso piano Regioni amministrate in modo molto diverso: la gestione della Campania è molto diversa da quella della Sicilia, e dovrebbe essere un vanto per il centrosinistra.
C’è da rimanere basiti poi a vedere che in Lombardia, dove la Lega con il consenso delle 5 stelle ha fatto un referendum nell’ottobre 2017 che è costato 50 milioni al contribuente, nessuno chieda conto delle proposte in discussione. Il Consiglio regionale della Lombardia non sa neppure di che testo si stia discutendo a Roma. E forse i sindaci del PD, Gori e Sala in testa, che avevano chiesto di andare a votare il referendum della Lega (pagato dal contribuente) farebbero bene a chiedere conto alla Lega e alla Giunta di centrodestra della Lombardia di quello che stanno combinando tra Milano e Roma e che poteri e risorse stanno portando a casa per le autonomie locali.
Paolino Casamari
(giovedì 4 luglio 2019)